Il nostro tempo è nessuno

Seung Hwan Oh, Portraits

Da un po’ di tempo hai perso il sonno e non è più colpa del rubinetto che perde, in una delle città che non ti appartengono, e nemmeno il materasso su cui sei cresciuto che continua a sprofondare da quando hai smesso di credere di potertene andare via. L’adolescenza è un periodo duro, in cui parlarsi è difficile perché difficile è razionalizzare quello che ti sta nascendo dentro. Uscirne è probabilmente peggio, quando ti accorgi che continuare a spingersi oltre, in fondo, ti riconduce sempre allo stesso punto. La solitudine è una droga che non scegli di assumere, che ti si infiltra nelle vene e si prende ogni spazio che trova lentamente, a volte la senti quando ormai è troppo tardi. Luce buia negli occhi, a oscurare ogni cosa, pensiero nero, fino a diventare labirinto dove nemmeno l’eccesso ti permette di non avvertire la lontananza dell’uscita. In trappola, fino alla scomparsa.

Giovanni aveva sedici anni, Michele trenta, generazioni lontane fra loro ma che si raccolgono nella stessa scomparsa. Giovanni non aveva parole, cercava rifugio, e qualcuno, con la presunzione di proteggerlo, ha finito per seppellirlo, credendo che lo stesso sistema che lo condannava potesse salvarlo. Michele ha cercato la forza delle parole, per se stesso e per chi si apprestava a perderlo, e per noi, un atto di accusa che non fa nomi ma è come se li facesse, e potessimo vederle le loro facce, dimenticarsi di ciò che siamo, perché il tempo è nessuno, finché non te lo rubano. Accanimenti terapeutici e morali su una malattia di cui non si dispone delle parole per comprenderla, convinti che una cura funzionante una generazione prima possa funzionare anche per la successiva.

Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito.

Il suicidio di Michele è politico, lo è per le sue ultime parole tutt’altro che irrazionali. Lo è nel modo in cui potremmo associarle a quelle di un nostro conoscente che prova a crescere con i mezzi che gli sono stati dati ma si trova sempre messo da parte, frasi che ci si spezzano in gola, per la paura di chi ha avuto modo di imparare tutto ma non ha trovato lo spazio per applicarlo. Il suicidio di Giovanni, per l’età e le condizioni in cui è avvenuto, è politica, la stessa che si scandalizza per la scissione di un gruppo di persone che hanno tutto, mentre si dimentica di chi ha appena perso. Entrambi accomunati da un senso di sconfitta, chi sociale, chi personale, nel non poter più reggere a responsabilità più grandi del dovuto, dell’impossibilità di farsi carico della propria vita e di quella degli altri. Traditi, insieme, perché convinti ormai di non poter essere felici. Di trovare un modo per uscirne, in questo mondo di vincenti, in cui la sconfitta diventa malattia perché le opportunità non te le regala nessuno ma le cadute non ti vengono più motivate, e puoi solo accettarle, o farti da parte. È meglio sradicare l’albero che non cresce uniforme, piuttosto di dargli la possibilità di irrobustirsi così com’è. Zone in cui preservare una specie che di umano ha ormai solo l’ombra, ma la figura è mostruosa. Il tempo è nessuno, in questa corsa alla sopraffazione, dove chi divora di più ha sempre fame tanto il piatto si è ristretto. Assediati e divisi, per sbranare l’ultimo pezzo rimasto, anche se questo significa lasciar morire il più fragile. In fondo fa più male essere nemici fra coetanei che combattere contro quelli che cercano di affamarti, stabilendo questa competizione malsana, uno contro l’altro, a cui rimane solo pregare di essere risparmiato. Perché per una volta sia il tuo, il nome selezionato.

Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza si, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.

Esistenze destinate a farsi del male e a scomparire, come sono arrivate. Troppo pieni, troppo vuoti, in fondo mai abbastanza vicini allo standard richiesto, senza che ti venga permesso di raggiungerlo e di modificarlo. Chi protesta per la propria idea è un violento, chi si suicida un codardo, chi se ne va all’estero una mela marcia. Sistemi di valutazione binari per chi è dentro e chi è fuori, per chi vale e chi merita di scomparire. Di giudizio si muore, anche se non ve ne state accorgendo, e presto tutti gli incubi che non facevano dormire Michele e Giovanni saranno anche i vostri, se non lo sono già. Pretendere qualcosa di più non è un vizio da millenials, non siamo noi il problema, ma il vostro mondo ci sta uccidendo, uno a uno. E noi volevamo solo essere felici, anche fallendo, cercando di trovare uno spazio per cui non siamo più disposti a lottare, per come ci avete esaurito e sfruttato, facendo delle immagini di altri ciò che saremmo dovuti diventare per non sopportare il nostro fallimento, per non farvi vergognare. E tutto il bene che ci avete voluto, probabilmente, non ci basterà più, quando proveremo a camminare da soli e ci si spezzeranno le ginocchia.

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