Storie di una autrice geniale: “Notti insonni” di Elizabeth Hardwick

Elizabeth Hardwick è stata la più influente critica letteraria americana del Novecento e lo si mette subito in chiaro anche in questa prima edizione italiana del suo “Notti Insonni”, tradotto da Claudia Durastanti per Blackie edizioni, con prefazione di Joan Didion e postfazione della stessa Durastanti. Un libro pubblicato quando Hardwick era già all’apice del suo talento: era una figura di riferimento in ambito letterario avendo rivoluzionato il concetto di critica, ma anche quello di saggio e di scrittura in generale. “Notti insonni” lo dimostra. Nata a Lexington, Kentucky, nel 1916, Hardwick ha girato il mondo, ma è rimasta inevitabilmente legata alle sue origini e, soprattutto, a New York, città che ha abitato per lunghissimi anni e di cui ha conosciuto e descritto vizi e virtù. È a New York, infatti, che debutta come autrice di romanzi, come critica nelle riviste letterarie e in cui fonda “The New York Review of Books” nel 1963 assieme a un nutrito gruppo di intellettuali dell’epoca. Hardwick stessa sarà l’esponente più di prestigio, anche se a lungo in secondo piano per il suo lavoro di critica, dei New York Intellectuals. Tre romanzi, numerosissimi contributi alle principali riviste dell’epoca, una biografia di Herman Melville e quattro opere di critica letteraria tra cui “Seduction and Betrayal” del 1974, testo indiscutibilmente femminista, anche se alla maniera di Hardwick. Nel saggio la critica analizza le più grandi autrici della letteratura anglosassone, dalle sorelle Brontë a Sylvia Plath, passando per Virginia Woolf e Zelda Fitzgerald. “Notti insonni”, invece, è un discorso a parte.

Pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1979, “Notti insonni” è un’opera di autofiction, non propriamente un romanzo, ma anche un po’ saggio, suddiviso in dieci parti che fungono apparentemente da capitoli, ma che in realtà non hanno una vera e propria logica narrativa; piuttosto è consolidata una struttura onirica, meditativa, di pensieri e riflessioni che si rincorrono come lampi di genio. “Notti insonni” è un lavoro che contiene elementi autobiografici, la stessa voce narrante si chiama Elizabeth, e racconta di luoghi e persone che Hardwick ha realmente conosciuto nella sua vita. Ma le coincidenze, probabilmente, finiscono già qui. Il resto sono interpretazioni della natura umana, meditazioni sulla vita, deduzioni sui rapporti e descrizioni di luoghi scritte con arguzia e trasporto. Nelle frasi di Hardwick ci si incaglia più volte: si tratta di una narrazione volutamente sfuggente perché contiene un livello di cogitazione talmente elevato da non assomigliare a nulla di quello a cui ci si abitua come lettrici e lettori. In un articolo dedicato a “Notti insonni” e al lavoro della critica letteraria, il Guardian definisce la mente di Hardwick busy, che possiamo tradurre sia come indaffarata, perché presa dal mondo e dall’arte che conosce con enorme accuratezza, ma anche articolata, perché nessuno è come lei, nessuna ha il suo spessore. A fine libro bisogna sicuramente rileggerlo per capirlo di nuovo, abituarsi alla scrittura e ritrovare le espressioni più ostiche che all’improvviso colorano tutto il testo con un senso nuovo. Per capire “Notti insonni” c’è bisogno di fermarsi e approfondire, scrutare Hardwick nelle foto d’epoca, nei suoi scritti precedenti, esplorare i luoghi che ha frequentato, la sua New York, forse anche scrutare, con rispetto, la sua relazione col marito, il poeta Robert Lowell, per poi ritornare a quello che è, a tutti gli effetti, un oggetto misterioso più che un semplice libro.

Il mondo secondo Hardwick

Hotel Schuyler; New York

Elizabeth Hardwick è stata una donna che ha saputo osservare attentamente il mondo che l’ha circondata, a partire dall’ambiente letterario della sua New York e la sua aura sacra, come racconta Michelle Dean in questo approfondimento su The New Republic; ma anche, più “modestamente”, la sua «piccola stradina» nella città, come lei stessa la definisce, «una via stramba, piena di vecchi condomini di taglia modesta costruiti proprio all’inizio del secolo per sistemare gli artisti».

Hardwick arriva a New York giovanissima e vive per anni nelle residenze per sole donne, in particolare nell’ormai scomparso Hotel Schuyler, 57 West 45th Street, che ospitava aspiranti artiste o donne che, per i motivi più svariati, si ritrovavano a vivere da sole nella New York degli anni ’40. La New York di Hardwick è luminosa, i fasti sono evidenti, le possibilità anche, ma al di sotto di questa patina vincente, c’è un sottofondo malinconico e distruttivo, che descrive così:

Una notte luminosa fuori a New York City. È sabato e la gente coi debiti va nei ristoranti, salta sui taxi, sbandando da West a East tramite il sottopassaggio di Central Park. Che differenza fa stare qui da sola? Persino adesso poco dopo le otto di sera, i camion iniziano a consegnare le copie del Times domenicale.

E sempre luminosa è, nel 1943, la città in una delle prime volte che la vede, in cui individua subito una «luminosa autodistruzione» e lo sfarzo caratteristico della città pur sempre «benigno».

Ma Hardwick non è solo New York: in “Notti insonni” fanno capolino Honolulu, la Russia, Amsterdam, in cui vive per un anno, Boston, i viaggi in giro per il mondo, tra cui uno in treno a Montreal pieno di fastidiosi uomini canadesi; e soprattutto sono propri di Hardwick i ricordi del Kentucky. E la Elizabeth che racconta quell’epoca è una ragazza di provincia che già contiene il seme della sua grandezza e che proprio New York aiuterà a far sbocciare.

Oltre ai luoghi dalla provincia e alla Grande Mela, Elizabeth Hardwick narra costumi e persone che lei stessa ha visto e provato a interpretare, e lo fa con una scrittura ricca, inconfondibile, non immediata, a cui è difficile approcciarsi all’inizio, ma che diventa indispensabile nel suo carattere enciclopedico. È attraverso questa lingua che interpreta e rende a noi il mondo in una maniera tutta personale e, per questo, indimenticabile.

L’acuta osservazione degli umani e delle loro relazioni la portano a inserire, nella parte più autobiografica di “Notti insonni”, righe dedicate a sua madre, donna «indifferente al proprio passato», dotata della «natura di un’esule», e il padre, figura sfuggente e quasi dimenticata. Di loro scrive:

Non credo che stiano pensando alla gioventù che non c’è più. Non credo che abbiano paura della morte. Dubito che si stiano chiedendo se si amano o se sono felici. […] Nonostante questo sono vivi, pieni di opinioni, di cose che non gradiscono, di idee persino.

Una vita matrimoniale che scruta con crudele attenzione e fedeltà assoluta alla realtà, fino a chiedersi come sarebbe stato per lei, Elizabeth la voce narrante, essere sposata a un uomo come suo padre; quando si risponde la modernità che dimostra è illuminante.

Elizabeth Hardwick ha conosciuto la vita matrimoniale, la cita in “Notti insonni”, anche se mai esplicitamente, ma a un certo punto parla di un «noi» che non esiste più; quel noi comprende un alter ego di suo marito per 28 anni, Robert Lowell, uno dei più grandi poeti della letteratura americana.

Si sposano nel 1949 poco dopo essersi conosciuti e, durante tutto il matrimonio, Hardwick si occupa di Lowell come una infermiera, placando la sindrome maniaco depressiva di lui, i crolli emotivi e le sue crudeli scelte in amore. Dirà sempre che Lowell è il “genio della famiglia”, nonostante l’infedeltà e un matrimonio con una signora dell’aristocrazia londinese poco dopo il loro divorzio. Una vita matrimoniale complicata che però non verrà messa in piazza, cosa che la preserverà, in un certo senso, da sofferenze ulteriori e non intaccherà la sua professionalità; ma rimane innegabile, a posteriori, l’evidenza che Lowell trattasse male tutte le donne che sceglieva. Ma ciò non modifica la sua fama di poeta geniale e celebrato, da Hardwick in prima persona.

In “Notti insonni” le relazioni umane sono un grande perno di narrazione, ma se di Lowell sappiamo poco, se non un fugace riferimento fuori dall’autofiction, di altri incontri arriviamo a dedurre più dettagli. Ne libro c’è J., il ragazzo gay con cui Hardwick convive a New York in una sorta di marriage blanc, come lei stessa lo finisce, e che indagherà con la stessa arguzia. Ma ci sarà spazio per molti amici, amiche e figure che, nella narrazione, sembra abbia ricordato fulmineamente, mentre scriveva. Tra queste colpiscono le pagine dedicate a Billie Holiday, che la Elizabeth del libro conosce tramite J., e che viene narrata con trasporto e liricità: una figura mitologica che abitava i jazz club degli anni ’40 newyorkesi. Una dea che, purtroppo, decade:

Come quelle creature leggendarie, aveva un destino spettacolare e conosce bene le forze maligne.
È vissuta fino ai quarantaquattro anni, o forse sarebbe meglio dire è morta a quarantaquattro anni. Di «enormi complicazioni».
L’edizione italiana di Notti insonni (foto Alessia Ragno); Billie Holiday

Si può dire che in ogni figura femminile di “Notti insonni”, Billie Holiday soprattutto, faccia capolino il femminismo tutto personale di Hardwick, la capacità di spiegare il “funzionamento della femminilità”, cioè il punto di vista femminile, la potenza artistica (già abbondantemente indagata nella letteratura con “Seduction and Betrayal”) e una personale predilezione nel rendere le donne soggetti di narrazione, sia che fossero sue amiche nella vita reale (si pensi a Mary McCarthy, Susan Sontag, ecc.), e quindi grandi artiste, sia donne di passaggio dalle storie tragiche e singolari.
Nella prefazione di questa edizione italiana, Joan Didion scrive:

Il metodo dell’«io» in Notti insonni è infatti quello dell’antropologo, del viaggiatore attento a cogliere il dettaglio rivelatore: ci vengono fornite osservazioni precise sugli sconosciuti incontrati nel corso del viaggio, studi intimi dei loro rituali.

E della narrazione di questi rituali, di questi studi antropologici, Hardwick è maestra indiscussa, bisogna solo darle il tempo di farsi capire dotandosi di pazienza, ma poi tutto, nel disegno superiore di quest’opera, prenderà il giusto posto.

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