Of Montreal – Lousy with Sylvianbriar

Loro di certo non hanno bisogno di presentazioni.

Con Lousy with Sylvianbriar, Kevin Barnes e i suoi Of Montreal sono ormai al dodicesimo lavoro in una carriera più che quindicennale. Una prolificità più da opossum che da musicisti, verrebbe da dire, ma visti gli ultimi risultati a chi sarebbe mai venuta voglia di lamentarsi? Paralytic Stalks (2012) era totalmente delirante, un album che sapeva correre rischi; le sue scelte, spesso anti-commerciali e fuori dalle classiche dinamiche della canzone pop sia per strutture sia per sonorità, non erano sempre efficaci ma attraverso il disco traspariva il coraggio di portare all’ascoltatore qualcosa che lo disorientasse.

E per questo tanto lo avevamo premiato. Almeno il sottoscritto.

Lousy with Sylvianbriar cambia musica, invece. In ogni senso.

Se gli scanzonati e inventivi versi di Kevin Barnes riconfermano il talento cantautoriale del leader della formazione americana, il convenzionale mélange di country ed echi brit-pop di Fugitive Air, brano di apertura, fa sospettare che siamo ben distanti dall’esplosione inventiva di Paralytic Stalks. Belle Glade Missionaire e Hegira migr rieccheggiano il Dylan del periodo di Blonde on Blonde, con sonorità blues che incontrano il folk americano, richiamo costante per l’intero ascolto. Altro protagonista del disco poi le melodie beatlesiane, che si impongono con maggiore forza in Sirens of Your Toxic Spirit, mentre Colossus, con le chitarre riverberate, i synth retrò e quei caldi bassi da black music, sembra ripescata direttamente dall’epoca della prima versione di Poseidon (film in cui tutti indossano pantaloni a zampa, per intenderci).

Triumph of Disintegration sfoggia invece cori surf alla Beach Boys, con risultati che rieccheggiano i primi dischi degli Eels non solo per la sonorità, ma anche per repentino cambio ritmico che ci porta prepotentemente al ritornello. Quello che manca è la sorpresa, il coraggio e l’inventiva che latitano, una traccia dopo l’altra, fino all’ultima nota.

Se mai avrò un figlio – cosa probabile, nel caso la moda del vintage ci riportasse i GoldOne degli anni 40’, tasso di rottura dell’81% – vorrei potergli spiegare cosa è stata la musica del nostro tempo senza dovermi costantemente aggrappare a riferimenti di altre epoche perché lui possa capire qualcosa. Ecco, in questa mia operazione, il nuovo lavoro degli Of Montreal mi è di grande ostacolo; e con questo non sto dicendo che l’album sia da gettare nella pattumiera. Ma per fare un bel disco non è sufficiente scrivere undici canzoni ben arrangiate, e di gradevole composizione. Bisogna che il disco abbia un messaggio. E se questo contenuto è la l’acritica ricostruzione archeologica di quello che è stato detto da altri in altri tempi e in altri luoghi – cose che lì dovevano essere dette e non potevano essere dette altrove – allora cosa ci stiamo raccontando? Tanti musicisti – e una grande fetta di pubblico – preferiscono rifugiarsi in un passato confortevole ma senza futuro piuttosto che tentare di esprimere quello che gli appartiene. Sempre che qualcosa da esprimere ci sia.

Non fraintendetemi, non sto dicendo di dimenticare il passato. Non c’è musica nuova se non si attinge a quello che ci sta alle spalle, ma la rielaborazione è necessaria. Senza rielaborazione, ci rimane solo una carnevalata: noi che ci vestiamo come negli anni 60’. Noi che suoniamo come negli 80’. Noi con l’atteggiamento dei 70’ e la disillusione dei 90’.

Coraggio, basta essere i neo-qualcosa di qualcos’altro.

A parte i neo-melodici, (nonostante l’abbandono di Gigi) continuate pure a farci sognare.

Other People, 2013

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