Oliver Sim degli xx testimonial Dior e le arti in movimento

Quando dovremmo porre maggiore attenzione all’arte e alla particolarità di essere ibrida in ogni sua espressione


Lo scorso 19 febbraio, a Che tempo che fa, gli XX sono stati ospiti di Fabio Fazio e di tutta quella strana concezione dell’arte che si manifesta ogni domenica sera su Rai 3 – l’estate ci risparmia un sacco di problemi, per fortuna. On Hold, il singolo della band inglese che ha anticipato l’uscita del loro terzo album I See You, ha riempito gli studi televisivi in ogni fessura lasciata scoperta dalla noncuranza scaturita in un freddissimo pre-serata invernale. Il total black d’ordinanza di Oliver e Romy ha contribuito alla creazione di un’atmosfera ideale e quasi al passo con i tempi. Jamie xx, le luci e le inquadrature hanno fatto il resto.

Dopo la loro esibizione, Fazio avvolge il trio con i suoi classici complimenti, arrivando a definire il loro lavoro, appunto, indefinibile. Tira in ballo il cinema, la pubblicità e la moda. La musica degli XX è praticamente ovunque, tanto da essere ritenuta una miscela di identità – se sentiamo casualmente le prime note di un loro brano siamo subito in grado di riconoscerlo – e potenza comunicativa che, ad un certo punto, prende le distanze proprio da quell’identità che permette di riscontrare il loro profilo.

Inutile contenere il panico che si è sviluppato sui social network. Su Twitter, in primis, l’hashtag di rito del programma era diventato un coacervo di opinioni totalmente contrarie a quelle del conduttore. Gran parte dei fan – coloro che l’indomani avrebbero riempito il Forum di Assago per la tappa italiana del tour degli XX – hanno tenuto a precisare, ancora una volta, l’inadeguatezza di Fazio e del suo modo di trattare una materia che sembra non aver colto in pieno, qualsiasi essa sia. In questo caso, la tuttologia è stata punita con le battute e derisioni che ne conseguono. Il conduttore di Che tempo che fa si è ritrovato, per l’ennesima domenica di fila, a fare i conti con una schiera di critici dell’ultima ora – la tuttologia è dura a morire, anche nel loro caso – che l’hanno attaccato in ogni suo punto. Gli XX sono gli XX e su questo non si discute! Io invece, quella domenica, al contrario di quanto venne espresso in 140 caratteri, mi ritrovai – con mia grande sorpresa – d’accordo con Fabio Fazio. Pur avendo una certa considerazione sul suo modo di fare televisione – è vero, Fazio riesce ad esercitare un certo fascino sull’editoria italiana, ad esempio – le sue parole erano pressapoco perfette. Non c’era nulla fuori posto, e il “Wow!” di Oliver Sim altro non era che la miglior risposta al suo elogio.

Lo stesso Oliver Sim, nel periodo precedente all’uscita di questo terzo album, è stato protagonista di diversi progetti che l’hanno portato al di là di quelli che sono i confini della musica, riuscendo allo stesso tempo a sconfiggerli con molta nonchalance. La sua campagna pubblicitaria per Dior, i suoi scatti in bianco e nero realizzati da Willy Vanderperre e tutta una serie di piccole cose che sommate tra loro decretano una presenza – la sua – di rilievo nel campo della moda.

Quella che Fazio sottintendeva con le sue parole era la capacità della band di aver scavalcato i confini eretti dalla potenza delle etichette di riferimento. Nei suoi elogi c’era tanto postmodernismo da far emergere completamente l’inutilità di rinchiudere un’espressione nei parametri di qualcosa di invalicabile. L’arte e le sue forme non hanno bisogno di ingenue recinzioni da non oltrepassare. Sottolineare la fluidità della musica degli XX trasporta con sé la capacità di irrompere ogni grado di separazione che persiste nella realtà. Vuol dire aprire gli occhi verso orizzonti più vasti, orizzonti che alla fine non interpreteranno nemmeno il ruolo di confine, quindi ostacolo alla diffusione del proprio lavoro.

Tra musica e cinema c’è un rapporto ormai consolidato negli anni – ed è anche inutile evidenziarlo. Molti sono gli artisti che si sono lasciati coinvolgere nella produzione di colonne sonore, gli stessi che a loro volta si sono lasciati catturare dal fascino esercitato dal mondo della pubblicità. Quello tra musicisti e registri è un rapporto semplice e complesso insieme. David Lynch, ad esempio, incarna perfettamente questa concezione dello stato delle cose, mostrando quanto fosse possibile la coesistenza tra cinema, musica e pittura. L’ultimo documentario David Lynch: The Art of Life cerca appunto di raccontare la persona che si nasconde dietro il mito, e attraverso di esso possiamo comprendere il livello e la liquidità di quella cosa che definiamo arte.

Negli ultimi mesi dello scorso anno, Teju Cole – scrittore e critico del New Yorker –, è arrivato sugli scaffali delle nostre librerie con Punto d’Ombra, tradotto da Gioia Guerzoni ed edito da Contrasto. Nelle 230 pagine, Cole mescola la scrittura con la fotografia, ottenendo così un risultato che rimbalza dalla parola all’immagine e che si lascia adorare per quello che ne comporta. Comporre un quadro della letteratura che si serve di due espressioni diverse, ma che – come ha precisato John Berger nel corso della sua vita – dialogano strettamente tra loro. Nel libro di Teju Cole, l’una non prevale sull’altra. La scrittura e la fotografia si uniscono; chiedersi se le parole da lui scritte raccontino le fotografie scattate, o viceversa, è sciocco quanto fuori luogo. Sono due degli ingredienti fondamentali della nostra vita che provano a dialogare e quindi raccontare insieme quello che sta avvenendo oltre le finestre delle nostre case.

Brienzersee, Svizzera, giugno 2014. © Teju Cole

Quando Nick Cave prende in mano i sacchetti per il vomito che distribuiscono in ogni buon aereo che si rispetti, mette nero su bianco quello che le note dei suoi brani cantano sin dal suo esordio. Il confine dell’arte in senso stretto è talmente nullo da riuscire ad accogliere qualsiasi ingegno che si realizzi in un dato momento, in una data circostanza. Oliver Sim riesce in tutto questo? Riesce ad evidenziare, ancora una volta, la liquidità della sostanza in cui siamo immersi? Certo, e sa benissimo come farlo. Il suo volto è diventato un’icona di un marchio della moda nello stesso modo in cui lo divennero tanti volti noti del rock per le campagne pubblicitarie della Levi’s. Allora quello che sembra essersi realizzato quel giorno negli studi di Che tempo che fa è una sorta di presa di coscienza difronte all’attuale stato delle cose. Accettare una tale definizione – da molti vista come svalutazione del lavoro degli XX – equivale all’incassare un colpo che ci riporta con i piedi per terra, anche quando le nostre menti si ancorano ai pregiudizi che gravitano intorno a questa dimensione che è la vita.

Tra musica, letteratura, cinema, fotografia e altro – la lista sarebbe abbastanza lunga –, prende vita una sorta di forma ibrida di comunicazione dei sentimenti e delle emozioni, la stessa che sta provando a ridisegnare i confini di quello che in molti non riescono ancora ad accettare come espressione artistica. La spiegazione di uno scatto, corredato da innumerevoli parole riversate sulla pagina, riesce a stabilire un contatto tra le due parti – in questo caso tra l’artista e chi osserva l’opera – che prima spettava solo ai critici. Stessa cosa vale per il cinema, immerso a sua volta in una complicità massima tra scrittura e sceneggiatura.

Noah Hawley, creatore della serie tv Fargo, è da poco tornato in libreria con Prima di Cadere (Einaudi, traduzione di Marco Rossari). Al centro del romanzo c’è il mistero che avvolge un disastro aereo e le vite dei due sopravvissuti. Nella sua scrittura, Hawley riprende una narrazione che si rifà molto alla tipologia della scrittura cinematografica – ammesso che ne esista una – e delinea i tratti di quel prodotto ibrido che riusciamo ad intravedere da una lunga distanza.

Di tutto questo l’arte ne ha bisogno, ne abbiamo bisogno. Dissacrare il codice identificativo di un oggetto, di un prodotto, è la prima cosa da fare per assicurare la continuità di questo ammasso enorme di roba attraverso cui sfamiamo la nostra ingordigia. Se l’arte, come ci è sempre stato detto sin dai tempi dei primi studi approfonditi a cui ci siamo dedicati, altro non è che il riflesso della nostra condizione esistenziale, allora vuol dire che è in atto una dislocazione d’appartenenza della nostra figura in quanto tale. La società liquida di Bauman, i mass media di Barthes, le osservazioni sul fenomeno del pop elaborate da Umberto Eco e le analisi delle condizioni politiche di Noam Chomsky, sono solo alcune delle sfumature di colore di cui siamo composti.

In tutto questo, la musica può ricoprire il ruolo fondamentale di traghettatrice di realtà pronte a dar vita ad una commistione di pulsazioni, quindi ad una nuova arte che per comodità definiremo ibrida? Beh, se vogliamo possiamo sempre prendere spunto da quello che sono riusciti a creare gli XX con i loro tre album in studio. Una contaminazione che ha preso il via dalla potenza intrinseca nel riuscire ad affascinare le vite di ognuno di noi, le stesse che si sono lasciate convincere che era possibile intraprendere una strada diversa da quella a cui eravamo abituati. Quella domenica, Fabio Fazio poteva tranquillamente rincarare la dose definendo la musica degli XX come un’onda che riesce a cullare le nostre esistenze fino a condizionarle in meglio o in peggio. I tre ragazzi di Wandsworth hanno così creato un modo di essere XX, un modo forse accennato nel video di On Hold e che – a loro insaputa – ha consentito l’esistenza di un’arte ibrida possibile. I loro brani non danno solo vita a sensazioni prevedibili – d’altronde tutti sono in grado di riuscire in questo compito –, ma riescono a creare immagini, storie e odori che ormai rileghiamo alla loro figura.

Forse, a fasi alterne, Fazio riesce a cogliere sfaccettature che, per quanto possano sembrare banali e pressapochiste, sono fedeli a quello che ci portiamo dietro senza nemmeno esserne consapevoli. Negli XX c’è tanto di quello che stiamo diventando con il passare del tempo. D’altronde l’arte, così come l’abbiamo conosciuta, è sempre in movimento. Per questo il suo aspetto ibrido non è mai scomparso del tutto, ma è solamente passato inosservato. La capacità di relegare determinate attività ad altrettante etichette, ad altrettante nomenclature, potrebbe – e dovrebbe – essere definitivamente rivista.

Exit mobile version