Olivia Manning, un ritratto

Nel 1987 va in onda sul canale principale della BBC “Fortunes of war”, una miniserie di sette episodi interpretata da Kenneth Branagh ed Emma Thompson, ovvero la produzione televisiva con il più alto budget registrato fino ad allora. Il successo fu enorme e investì, di riflesso, anche l’autrice della serie di romanzi da cui era stata tratta, Olivia Manning. Manning, però, era scomparsa già da sette anni dopo una vita avventurosa in giro per il mondo passata a cercare la propria consacrazione come autrice. Una scrittrice prolifica e instancabile, giornalista, Commander of the British Empire per i meriti civili, donna cosmopolita e sagace, autrice di oltre venti romanzi, a lungo collaboratrice della BBC, corrispondente in Est Europa e poi Medio Oriente durante gli anni della guerra a seguito del marito R. D. Smith, docente universitario, in realtà spia comunista. Non c’è lavoro di scrittura che Manning non abbia intrapreso. “Fortunes of war” è il suo capolavoro, una serie di sei romanzi a loro volta suddivisi in due raccolte di tre volumi ciascuna: “The Balkan Trilogy” e “The Levant Trilogy”, pubblicate in originale dal 1969 al 1980, anno della scomparsa della scrittrice. Il primo volume della Trilogia Balcanica, “La grande fortuna” è ora anche nelle librerie italiane nell’edizione Fazi, tradotto da Velia Februari e con l’introduzione di Rachel Cusk.

Le trilogie di “Fortunes of war”

Le due trilogie di Olivia Manning seguono nei loro viaggi da esiliati i giovani coniugi Pringle, Guy e Harriet – blandamente costruiti sulle vicende private della scrittrice e di suo marito -, dapprima inviati in Romania per inseguire gli incarichi di lui, docente nel dipartimento di Anglistica dell’università di Bucarest, poi in seguito esuli in Grecia, Egitto e Palestina mentre la guerra divampa sul suolo europeo. “La grande fortuna” si apre nel settembre del 1939 con Guy e Harriet, appena ventenni e sposatisi da meno di un mese, in viaggio in treno verso Bucarest. L’Europa nel frattempo trema: la Gran Bretagna ha appena dichiarato guerra alla Germania.

“Fortunes of war”, la saga completa, è stata definita dallo scrittore e critico britannico Anthony Burgess la migliore cronaca romanzata della seconda guerra mondiale mai scritta da un’autrice o un’autore britannico. La conferma di ciò è ben evidente ne “La grande fortuna”, romanzo in cui la minuzia delle vicende personali dei protagonisti, e del coro di personaggi che li circonda, nonché le loro miserie e la crescente incredulità per l’escalation di eventi, si innesta perfettamente nel tessuto storico che sorregge la narrazione. L’arco temporale raccontato, infatti, copre una serie di eventi storici chiave del Novecento: c’è la menzione degli eventi di Dunkirk, per esempio, ma soprattutto c’è un pezzo di storia recente della Romania sull’orlo della dittatura a seguito dell’uccisione del primo ministro Călinescu da parte delle squadriglie fasciste della Guardia di Ferro. Con la sua scrittura, Manning è capace di collocare perfettamente all’interno del conflitto che sta per scatenarsi la relazione di una giovane coppia che cerca lo spazio per la sua individualità in un paese straniero, con tutte le difficoltà del caso, tra lingua e abitudini culturali, ma soprattutto fotografa due esistenze in balia di eventi storici di portata epocale. La lente di Manning, focalizzata sul particolare, non dimentica, però, di costruire la cornice storica, cornice di cui Manning stessa è stata testimone. La scrittrice, del resto, ha dichiarato che la sua unica vocazione era di scrivere sempre e solo di esperienze, «I have no fantasy», si schermiva.

“La grande fortuna”, si diceva, segue Guy e Harriet: lui impegnato nelle attività didattiche e nelle relazioni con gli altri inglesi presenti sul suolo rumeno – molti dei quali membri della Legazione Britannica, ente con un ruolo politico e antifascista – e gli avventori dei luoghi chiave della capitale tra giornalisti, aristocratici autoctoni e vecchi nobili britannici caduti in disgrazia. Uno su tutti il Principe Yakimov, figlio di un russo e di una irlandese, povero in canna, ritrovatosi a vagare nell’Europa stretta dalla morsa del nazismo a bordo di un’auto sportiva che perde proprio all’inizio del romanzo. Le sue giornate a chiedere soldi in prestito e scroccare pasti si intrecciano con quelle di Guy che, nonostante il parere contrario di Harriet, arriverà anche a ospitarlo nel momento più critico. Yakimov è il personaggio più riuscito di questo romanzo in uno scenario già composto da figure credibili, tridimensionali e ben riconoscibili, ma è con Yaki, il nomignolo con cui viene spesso apostrofato nel romanzo, che l’abilità di Manning di ritrarre l’animo umano esplode. Le piccole e grandi miserie del principe truffatore, che vive d’espedienti, incapace di sostentarsi senza i fasti del passato, si alternano alle vicende dei protagonisti e fungono da contraltare alla narrazione principale. Il risultato è un personaggio che si muove, a volte goffo, altre volte leggero, sulle corde dell’empatia di chi legge, ma che si rivela capace di strepitosi dialoghi comici.

Il lavoro su “Fortunes of war” è un compendio perfetto della poetica di Manning, che in tutta la sua opera ha affrontato temi ricorrenti ben precisi. Intanto la critica all’imperialismo e il colonialismo britannico, più evidente nella “Trilogia di Levante” ambientata tra Egitto e Palestina, e il conseguente declino del British Empire, e infine lo squilibrio dei poteri evidentissimo ne “La grande fortuna”, ambientato in una Romania prevalentemente povera, accecata dai giochi di palazzo. La penna di Manning è molto dura con la Bucarest del 1939 e calca spesso la mano su la scarsa alfabetizzazione, sulla povertà, la fame, quasi a voler esasperare il distacco che si crea tra il popolo rumeno e la presenza della Legazione britannica.

Ma soprattutto Manning si è occupata di un altro tema fondamentale: l’alienazione dell’individuo che assume diverse sfumature nella sua produzione letteraria. Nel caso de “La grande fortuna” riguarda soprattutto la distanza dalla propria terra natia e il tentativo gravoso di costruirsi un’identità di individuo e di coppia, nel caso dei Pringle, in una nazione straniera. I personaggi di Manning sono sempre altri rispetto al contesto, anche dal punto di vista emotivo. È Harriet stessa a spiegarlo.

«Io non ho genitori», spiegò Harriet. «Perlomeno non che io sappia. Hanno divorziato quando io ero piccolissima. Si sono risposati entrambi e nessuno dei due ha ritenuto opportuno prendermi con sé. È stata zia Penny a crescermi. Ma ero una seccatura anche per lei e, quando combinavo qualche marachella, mi diceva “Non mi stupisce che mamma e papà non ti volessero bene”. A dire il vero, tutto ciò che possiedo è qui».

Il suo «qui» finale allude alla nuova vita con Guy a Bucarest, unico luogo confortante anche se fortemente travagliato.

Olivia Manning, la furia quieta della sua scrittura

È possibile ancora ascoltare la voce di Olivia Manning in un brevissimo intervento radiofonico andato in onda il 25 agosto del 1969 sulla BBC per Desert Island Discs, rubrica ideata da Roy Plomley, tuttora in onda anche dopo la sua scomparsa. Plomley intervistava di volta in volta un personaggio di spicco del periodo, definito naufrago nell’idea del programma, per chiedergli i dischi da portare su un’isola deserta. L’estratto dedicato a Manning è di soli sette minuti, ma tanto basta per sentirla parlare con compostezza del suo mestiere, delle abitudini di scrittura e delle sue influenze letterarie.

«Non posso dire di aver deciso di scrivere», risponde Manning quando Plomley indaga i suoi primi passi nella narrativa, «ma ho sempre scritto, e prima di imparare a scrivere raccontavo storie […]». Questa è Olivia Manning: un’autrice che ha scritto instancabilmente sin da giovanissima età, negli anni dell’adolescenza quando come dattilografa, quando è stata pittrice e infine da giornalista e corrispondente. Una vera e propria abitudine alla scrittura la sua, ogni pomeriggio e notte dopo il lavoro, anche durante la guerra e nei viaggi a seguito del marito. Lei isolata nel suo rito di scrittrice, lui più simile a Guy Pringle; R.D.Smith è stato un uomo dalla grande socialità, ferreo sostenitore del talento della moglie, sempre insieme in un matrimonio tanto saldo quanto aperto ad altre relazioni. Manning, invece, è stata più solitaria, più insicura, ma combatteva con la sua furia quieta, eccellente definizione contenuta nell’edizione Penguin delle due trilogie, per conquistare il riconoscimento letterario che meritava. Negli articoli a lei dedicati c’è sempre traccia della natura intrattabile del suo carattere, o almeno così dicevano, del suo umorismo caustico. Un articolo dell’archivio di The Paris Review per una vecchia rubrica chiamata “Feminize your canon” dedicata alle scrittrici dimenticate nella letteratura anglosassone, riporta una frase di Manning molto significativa: «Io non voglio la fama quando sarò morta, […] la voglio adesso». È questa la sua furia.

Manning non ha avuto una produzione letteraria dichiaratamente femminista: è stata convinta sostenitrice dei diritti delle donne, ma non dei movimenti politici e sociale ad essi legati. Eppure si può dire che la sua voglia di emergere e di essere vista nel suo lavoro fosse chiaramente femminista. Soprattutto in un ambito, quello letterario, dominato dalla visione e dal canone maschile. E Manning, fortunatamente, non guardava in faccia nessuno quando si esprimeva pubblicamente, né scrittori né scrittrici. Leggendaria la sua antipatia nei confronti di Iris Murdoch, ma anche amica di Ivy Compton-Burnett, a lungo confidente della poetessa Stevie Smith, ma leggendaria è anche la sua risposta alla mancata shortlist del Booker Prize del 1974. La scrittrice e membro della giuria A.S. Byatt osò definire il suo “The Rain Forest” lento e lei rispose: «I wouldn’t call Byatt exactly a sprinter», non definirei Byatt propriamente una velocista. Manning aveva già sessant’anni, la sua figura di scrittrice era consolidata, ma non abbastanza e non certo quanto la fama del suo carattere difficile, dettaglio che in epoca moderna avrebbero letto con più accuratezza. La sua è una figura letteraria unica di scrittrice determinata a trovare la collocazione che merita per la sua scrittura e la produzione letteraria. E del resto si sa, il “brutto carattere” è lo stereotipo che accomuna tutte le donne volitive nella storia dell’umanità.

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