Ought – Room Inside The World

I canadesi Ought sono una vecchia – recentissima – conoscenza. Sin dall’esordio More Than Any Other Day si sono assicurati la nostra benevolenza con quei suoni graffianti che invocano ancora post-punk e noise. Il nuovo album Room Inside The World non fa che confermare questa vocazione. Passati alla statunitense Merge Records, dopo gli esordi con la canadese Constellation, Tim Darcy e compagni continuano a graffiare con un disco che suona deciso, affila le chitarre e sussurra di notti insonni e devastanti alle orecchie.

Era dal 2015 che non facevamo i conti con nuove uscite della band di Montreal, se si eccettua la parentesi solista proprio di Tim Darcy, che lo scorso anno aveva tirato fuori un ulteriore episodio di distorsioni e suoni sporchi con il disco in solo Saturday Nights. Un piccolo omaggio al punk che confermava ancora una volta il talento canoro di Darcy, che sapeva alternarsi tra un’arte da paroliere acrobatico alla Lou Reed e un’inaspettata vena da crooner d’altro tempo.

Room Inside The World non fa altro che confermare il talento di Darcy: anche qui sperimenta, gioca, si lascia accompagnare dalla musica sporca della band, regalandoci cavalcate vocali – a tratti recitate – come These 3 Things che si alternano al languore di un pezzo – duro, eccessivo, sporcato da chitarre letali – come Into The Sea.

 

E che benedizione per le nostre orecchie quell’ululato rag punk potentissimo che cavalca lungo tutta l’America disgraziata di Disgraced in America. Demarcation. Demarcation – ripete Darcy. E allora è da rimarcare quanto le chitarre degli Ought vengano fuori sincere al tempo dei suoni sintetici. C’è una certa vitalità in tutto il disco che ci riaccende: e anche quando le chitarre s’interrompono per un attimo in episodi più synth come Desire, e la magia e l’incanto non si fermano.

Un disco devoto ad Alice Coltrane – ha raccontato la band. Tant’è che dentro l’album troverete un pezzo che porta il suo nome – Alice – e che rappresenta bene il sincretismo sonoro di questo nuovo album degli Ought. C’è qualcosa che arriva a rievocare persino il Tim Buckley di Lorca, lì tra le strettoie del tempo, e una certa progressione tipica di un certo rock più classico, mescolato a cadenze blues: una vera e proprio cavalcata infernale che nel giro di 4 minuti ci trascina da un fantasma all’altro. Stessa ricerca sincretica che capita di incrociare anche su pezzi come Pieces Wasted, che però è un pezzo più slacker e vicino a Pixies e giocosità punk. E che dire delle tastiere infuocate di Take Everything che ci riportano addirittura a un disagio esistenziale che richiama gli Smiths, e poi si apre in una coda spaziale e sonica che arroventa le orecchie.

Per tutto il disco vi farà piacere scoprire quanto possano ancora cavalcare le chitarre, quanto ancora si possa osare con uno strumento del genere, quanto ancora sia viva la possibilità di suonare dal vivo la propria musica suonata e le proprie perdizioni. Gli Ought hanno ascoltato molto bene la lezione sonora degli Ottanta e dei Novanta, e ce la presentano diritta dentro le orecchie rimodulata per il decennio in cui viviamo. Sì, ci farà piacere perderci a ricordare quanto sia bello il sincretismo sonoro che vien fuori da batterie e chitarre, le incursioni da gioventù sonica, e la disgraziata America cantata dai canadesi.

Sonico, spaziale, sincretico, deciso: il nuovo disco degli Ought è una benedizione – ed è difficile liberarsi di un album del genere. Abbiamo la sensazione che non evaporerà facilmente, e che dal vivo saprà come lasciarsi ascoltare. E prendervi.

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