Panic on the streets of London

Londra: “un supermercato degli stili” simile a quello evocato dall’antropologo, esperto di culture e tribù giovanili, Ted Polhemus. “Panic on the streets of London”, come cantavano gli Smiths, in quel labirinto senza confini dove regna, insieme alla regina Elisabetta, l’ideologia della creatività intesa soprattutto come orgoglio nazionale.

Idee innovative – materializzate sotto forma di musica, arte e moda – che creano la precisa formula algebrica di una cultura eversiva, di rottura, slegata alle convenzioni vittoriane. Eroe nazionale di dimostrazione lampante, Vivienne Westwood, promotrice negli anni Ottanta di fogge scabrose e feticiste che incarnavano il livello più alto di quel punk accostato a uno stupefacente new-romantic rielaborato. Le istanze di sacrosanta controcultura, dunque, intrecciate ai rimandi di costume storico, crearono un miscuglio di tendenze e di stili, di tessuti poveri e preziosi, di leziosaggini settecentesche e di accessori sado-maso, ingioiellate da pettinature esibite con aria di sfida, con il compiacimento assoluto della stampa di settore. Una ventata rivoluzionaria e trasgressiva che in breve tempo abbandonò i subliminali contenuti di denuncia sociale per volgere attenzione e ispirazione verso i canoni di un’estetica contemporanea – composta da forme accentuate e scenografiche scomodità –  generando  dibattiti infuocati sull’esaltazione delle valenze negative del kitsch, sul travestitismo e sulla mortificazione del corpo. Ribelli con una causa – quella di dare a Londra quel tocco in più nel campo delle arti – a dominare la scena degli anni Novanta furono i talenti spericolati della celebre St.Martin School. Nessuna tendenza dominante, soltanto una quantità di stili – tipici delle varie sottoculture – derivati da generi musicali elevati a dignità di moda con contributi vintage e retrò.

Dal rifacimento del costume storico di John Galliano – fedele a personaggi divenuti ispirazione, all’utilizzo di dettagli complessi e a quella dei decori spettacolari – al famigerato agro chic – composto dai linguaggi malinconici, infernali, onirici, gotici – di Alexander McQueen: l’artista più visionario, morto suicida nel 2010. McQueen non subiva il fascino abbagliante delle sciocchezze del sistema, preferiva usare il mezzo-moda per affermare la propria natura di artista per stupire, come quando concluse il suo show primavera/estate 1999, con una performance ispirata a un’installazione di Rebecca Horn. Sensibile alla bellezza al punto da strattonarla per immergerla nel grottesco, il designer inglese fu geniale al punto da suscitare affascinanti ed emozionanti spasmi di felicità, tristezza, repulsione e disgusto. Londra: un enorme spazio in cui tutte le subculture del passato sono ancora vive e pronte, disposte su scaffali immaginari, per essere liberamente attraversate o per essere audacemente assemblate le une con le altre.

Exit mobile version