Paolo Benvegnù – H3+

Ho sempre pensato che per salvare Sanremo basterebbe un Paolo Benvegnù. Basta fare un giro nel suo canzoniere per cogliere la direzione che la canzone italiana avrebbe potuto prendere da un certo momento in poi, e per tutto il corso degli anni zero. Non era la “rivoluzione” sanremese degli Afterhours del 2009 con Il paese è reale quella che avrebbe potuto salvare Sanremo, e non erano neanche i Marlene Kuntz nel 2012 quelli che avrebbero potuto confondere le acque del mare ligure. Afterhours e Marlene rappresentavano un mondo ancora troppo alternative per essere “rivoluzionari” nella televisione italiana, venivano naturalmente assorbiti dal sistema: le brave signore a casa potevano derubricarli come fenomeno rock di costume per spiriti giovani (anche se After e Marlene sono andati a Sanremo già in là con gli anni), e tornare in pace ad ascoltare Al Bano o quel che sia.

No, quello che poteva salvare Sanremo era Benvegnù. Era lui l’uomo giusto per re-interpretare (e riportare in auge) lo spirito cantautoriale della musica italiana. Ciao televisione, ti faccio vedere cos’è la musica qui fuori, quella che suona nei locali, con gli strumenti veri, quella che esce fuori dalla testa di un autore che si ritira a comporre, che sa scrivere testi e musica. Vi faccio sentire come si fa una canzone italiana. Ecco, Benvegnù avrebbe potuto accendere gli spiriti delle brave signore a casa con i suoi pezzi, con canzoni come Suggestionabili o Il mare verticale, o con delitti perfetti come La schiena. Ma parliamo di una storia mai successa, di un’ipotesi: Paolo Benvegnù è rimasto il cantautore raffinato che le brave telespettatrici non avranno mai opportunità di conoscere (se non per le traverse vie infinite delle cover di Giusy Ferreri), e forse è meglio così. La televisione pesca la musica dalla televisione e non dentro il suo luogo più naturale e idoneo, i locali.

Da Hermann, ultimo disco di Benvegnù, sono trascorsi tre anni. Ora il nostro cantautore torna con una voce appena poco più rauca e questo nuovo lavoro, H3+, tuttavia non ha abbandonato la terribile ossessione per la bellezza. Il titolo è ispirato allo “ione triatomico d’idrogeno” – cito da fonti, nessuno crederebbe che so di cosa si tratti sul serio, anche se per scrivere questa recensione ammetto di aver fatto una ricerca a proposito di questo ione (in fondo sono giornate straordinarie per la scienza, di scoperta di nuovi mondi e pianeti su cui sarebbe bello emigrare se solo sapessimo che sono migliori del nostro), ed è venuto fuori che questa molecola potrebbe nascondere i segreti dell’intero Universo. Probabilmente Paolo vuole raccontarci questi segreti attraverso questo viaggio in dieci movimenti/canzoni. E allora ascoltiamolo sussurrare cosa ha da dirci.

“Dea del Silenzio, dimmi cosa c’è / Dea dell’Attesa dimmi cosa c’è / cosa c’è nel vuoto” (Victor Neuer)

Anche stavolta le atmosfere rarefatte di Benvegnù tornano a farci visita, è già chiaro dall’attacco di Victor Neuer, con i suoi assalti a colpi di arpeggi di chitarra e violini. Intuiamo immediatamente di trovarci dentro un viaggio interstellare come metafora dell’uomo, in fondo quello che vuole raccontarci Benvegnù è l’avventura che tocca all’anima, un ritorno agli immensi e sconfinati segreti che sono chiusi dentro di noi: tutti questi mondi dall’altro lato dell’universo non sono altro che il riflesso profondo delle anime umane, e così non sorprende se questo disco somiglia anche a un piccolo manuale di filosofia orientale, a un dispaccio d’occasione che ci ricorda quando sia bella e tragica e violenta e meravigliosa e completa e manchevole la questione dell’esistenza umana.

Macchine, con la sua intro interstellare perfetta, nel rivendicare la fallacità di perfezione e intelligenza, è un ritorno a “ciò che è intatto, astratto, sommerso, sconfitto, diverso“, il “posto dove esiste tutto” e niente. L’astronave su cui sale Benvegnù è magica, ma anche fisica, in uno dei pezzi più belli del disco, che è sospeso nell’aria di atmosfere anni Ottanta (parliamo di Goodbye Planet Earth), l’astronave è sia corpo che prigione. Ma a questo corpo/astronave in viaggio nello spazio infinito, a volte capita di abbandonare l’io per incontrare l’altro: il più profondo dei viaggi dell’anima che Benvegnù vuole sussurrarci è ancora una volta quello dell’amore. Olovisione in parte terza racconta proprio quell’incontro delle anime, e allora quaggiù sembra quasi di ritrovarsi in un vecchio racconto cosmicomico di Calvino.

Questo H3+ è un disco ostico (il titolo lo grida come spoiler del resto), o come direbbe lo stesso Benvegnù, sospeso tra ghiaccio ed idrogeno. E del resto non sarà un caso se vi potrebbe capitare di tanto in tanto di stoppare il disco, prendere una pausa per poi ritornare a sentirlo. Voglio soltanto rassicurarvi: è normale amministrazione. Cadere pericolosamente dentro lo spazio/tempo suonato da Benvegnù potrebbe disorientare a un primo ascolto. Dove stiamo andando?, potreste dirvi, prima di perdervi disgraziatamente e ancora in quest’occasione da Astrobar Sinatra. Astrobar perché ci spostiamo in quel bar astrale dove il pianoforte di Slow Parsec Slow ci accompagna come un magico sottofondo.

Se questo sono io / Se è vero ciò che è sempre stato / Ho navigato senza trovare niente / Cercando sempre l’infinito“, la ricerca di Benvegnù riguarda sempre l’eterna ricerca delle anime umane erranti, ma è una ricerca che mette da parte la storia, e tutte le sue contaminazioni, per entrare in un mondo più puro, iperuranico. Allora l’amore diventa anche “un’idiozia”, ma a fare da cornice di questo quadro ci sono fiumi, spazi immaginari, e la natura incontaminata. Un disco che continua a ripercorrere lo stile del cantatutore milanese, che fu fondatore degli Scisma. E allora, lasciatevi andare al mood Benvegnù, poi tornate pure con i piedi per terra.

 

 

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