Parquet Courts – Human Performance

Credo che chi non senta musica si perda una meravigliosa esperienza, quella del ritmo, del rumore, del suono, e – perché no – del silenzio. In fondo quando ascoltiamo musica abbiamo l’occasione di star zitti, senza sentire la necessità di dare opinioni su tutto lo scibile umano. Oggi* esce il nuovo disco dei Parquet Courts, Human Performance, ma ben pochi se ne accorgeranno. Dei Parquet Courts abbiamo cari ricordi, due dischi davvero intensi come Sunbathing Animal e Content Nausea (a nome Parkay Quarts) nel 2014, il passaggio all’etichetta Rough Trade dello scorso anno con l’EP Monastic Living, e un sound disincantato che sa di ruggine. La Rough Trade deve essersi accorta del talento di Andrew Savage e compagnia: ha deciso di investire su questo sound graffiante, che sa di antico (laddove per antico non intendiamo vecchi canti di suonatori e menestrelli, ma ci riferiamo a qualcosa di più recente che affonda nei sottoscala underground, dai mitologici anni Settanta all’indie rock puro dei primi Novanta).

Tornano le chitarre. Tornano i suoni acidi e sporchi. Torna la polvere. Negli ultimi anni a certi suoni ci stiamo lentamente riabituando per via di alcune band di ritorno: a cominciare dai Metz, e virando verso gli Ought o i Viet Cong, sembra esser tornata furente l’esigenza di suonare sporchi. I Parquet Courts mi sembrano quelli più – mi si perdoni la parola – intellettuali del gruppo. Hanno fatto loro una certa lezione sonica e l’hanno accompagnata con testi che colpiscono diritto al cuore della faccenda. Ci rendono partecipi di una contestazione, per carità minoritaria, ma non per questo meno sincera. Quando canta Savage ha la potenza di un Matt Berninger che sussurra storie.

 

I Parquet Courts hanno il vizio di far le cose da soli. Tutto è cominciato quando hanno auto-prodotto il primo album, American Specialties, ed è continuato con il vizio di Savage di disegnare le copertine dei dischi, stampe e locandine, di suo pugno (Andrew ha studiato pittura prima di buttarsi nel mondo della musica). Dopo aver firmato con una piccola etichetta di New York (città che li ha accolti e raccolti), la What’s Your Rupture? (specializzata in vinili – ?! -), la band ha incontrato la Rough Trade, etichetta inglese, eppure ha mantenuto il vizio di essere indipendente da certe logiche del mercato.

Non hanno un profilo Facebook, e non credono che a una band serva farsi pubblicità sui social network. Anche qui si nasconde parte della loro contestazione. Il punk patinato delle altre band prova a fare i conti con la rivoluzione digitale, incontra le tendenze del mercato, sceglie la strada di conformarsi, mentre i Parquet Courts se ne tirano decisamente fuori. Austin Brown (l’altra voce del gruppo) ha dichiarato che il seguito di una band non si misura dai follower su twitter, e che le persone seguivano le cose anche prima dei social network. Sono stati chiamati i grandi anti-poseur. Non dovrebbe fare anche questo un vero punk oggi?

Human Performance si apre con queste stravolgenti prospettive. Parte forte con Dust, singolo di grande potenza in cui risuonano gli echi dei Sonic Youth (”dust is everywhere”). La title-track attacca invece riportando in mente il fantasma e i vertici di una band newyorkese che oggi vive una crisi di identità, i The Walkmen. Ma sarebbe riduttivo parlare dei Parquet Courts solo come una band molto colta che reinterpreta i grandi momenti di una certa attitudine musicale. Se è vero che spaziano e ricercano, la capacità di trovare un’identità è ancora dalla loro parte.

Pezzi come Paraphrased potrebbero portare con sé l’inganno di parafrare una certa scena (altra brutta parola) a cavallo tra new e no wave. La ballata Steady on my Mind vi ricorderà certe cose che abbiamo sentito suonare e sussurrare a Thurston Moore. Mentre il singolo Berlin Got Blurry vi confonderà le idee. Cos’è questo cocktail di idee e ossessioni? E che c’entra un pezzo spaghetti western con l’intero album?

Non saper rispondere a certe domande è il cuore della delicata sgangheratezza dei Parquet Courts. Keep it Even è il vertice di questa storia slacker. Se in Heroin dei Velvet Underground si poteva sentire davvero l’eroina come stato dell’anima, grande anticipatrice di quello che toccherà con tutto lo slowcore a venire, coi Parquet Courts nessuna edulcorazione è consentita. I dèmoni che si rincorrono per tutto il disco sembrano perfettamente integrati nella confusa contemporaneità che ci narrano. It’s gonna happen è letale, una nenia di chiusura che non riesce a scomparire.

Fatevi un piacere oggi e domani, ascoltateli.

*8 Aprile 2016, a futura memoria

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