Partiti fermi al palo lo acclamano: Napolitano concede il bis

Non sono bastate le elezioni a garantire all’Italia la governabilità, mentre la profonda crisi dei partiti rende impossibile anche eleggere in modo condiviso il nuovo Presidente della Repubblica. Alle 15 è cominciata la sesta votazione alla Camera e per la prima volta nella storia repubblicana viene ricandidato al Quirinale il presidente uscente.

«Sono disponibile, non posso sottrarmi. Ora però serve un’assunzione collettiva di responsabilità», queste le parole con cui Napolitano ha accettato di riprendere nelle sue mani le sorti della Repubblica. I voti necessari per l’elezione erano 504, al termine dello spoglio Napolitano viene rieletto con 738 voti tra gli applausi scroscianti di gran parte dell’Aula. Pdl, Lega e Scelta Civica hanno appoggiato convintamente Napolitano, anche il Pd sebbene perso nelle sue divisioni, mentre apertamente contrari alla sua riconferma il Movimento 5 Stelle, Sel e Fratelli d’Italia.

Così è di nuovo l’87enne Capo dello Stato ad essere rievocato nella realizzazione di una sorta di semipresidenzialismo di fatto: il governo del presidente e dei suoi saggi. Giorgio Napolitano dovrà rinunciare al meritato riposo al termine del suo settennato e sacrificarsi sull’altare dell’inettitudine di una politica logora e sempre più autoreferenziale. Un’incapacità che già nel 2011 indusse l’inquilino del Colle a forzare le procedure e ad assumere su di sé la responsabilità di garantire un governo al Paese: quello del bocconiano, Mario Monti. Una parentesi tecnica che non certo lascerà tracce memorabili nella storia repubblicana, ma figlia della stessa incapacità dei partiti che continua ancora oggi ad immobilizzare l’Italia. Si fanno strada le “larghe intese“, le più larghe possibili, ma qualche malumore già serpeggia sul possibile futuro Presidente del Consiglio, secondo alcune voci potrebbe toccare a Giuliano Amato con Enrico e Gianni Letta come vice.

In ogni caso la rielezione di Napolitano continua a rappresentare uno soluzione emergenziale volta a garantire le condizioni necessarie per le riforme istituzionali. Si ipotizza che entro due anni il mandato presidenziale potrebbe volgere al termine per dimissioni anticipate, come nel 1964 toccò ad Antonio Segni. Una conseguenza necessaria dopo l’impietosa l’implosione del Pd, un partito troppo occupato nelle feroci guerre intestine da arrivare anche a soffocare il naturale istinto di sopravvivenza. Bruciata la candidatura di Franco Marini, stessa sorte anche per quella del fondatore dell’Ulivo, Prodi, che si accascia colpito da 101 coltellate. Sel presagito il complotto aveva in modo precauzionale segnato i propri voti per schivare ogni possibile accusa di tradimento dell’alleanza, che di fatto ricade tutta sulle anime interne e ostili di quello che resta del Pd, “un amalgama malriuscito” per alcuni, “un partito mai nato” per altri. Un dimissionario Bersani ha dovuto ammettere di non essere più in grado di garantire coeso sostegno a nessun candidato per il Colle, mentre uno scenario surreale avvolge da giorni il Parlamento con manifestazioni di protesta che chiedono l’elezione del giurista Stefano Rodotà. Il vincitore delle Quirinarie grilline incoronato per l’occasione salvatore della Patria, sostenuto ad oltranza dal M5stelle, ha incassato consensi in modo compatto da Sel, e tra i sostenitori del Pd, in un clima di incontenibile isteria collettiva.

Un segno dei tempi, evidentemente, questa pretesa di forzare i partiti nella scelta del candidato alla presidenza della repubblica, ignorando la natura rappresentativa della nostra democrazia: uno degli effetti della grillizzazione della politica. Nemmeno una candidata di alto profilo istituzionale come la Cancellieri, proposta da Scelta Civica è riuscita ad ottenere appoggio trasversale e condiviso tra le forze politiche. Grillo grida al Golpe, anche se è stata sua inizialmente la scelta di chiudersi ad ogni dialogo con le altre forze politiche negando la fiducia ad ogni possibile governo. La colpa del Pd non essersi voluto “arrendere” all’antipolitica, che pero’ non è bastata a far deflagrare l’istituzione repubblicana. “Il Paese non vuole cambiare” gridano fuori dal Parlamento invocando l’elezione del “conservatore” Stefano Rodotà. L’incapacità di sintesi politica e l’impotenza dei partiti riconsegna il destino del Paese e dell’unità nazionale nelle mani del “riformista” Giorgio Napolitano, costretto a succedere a sé stesso.

Exit mobile version