Quello che abbiamo fatto, Paul Auster fra Chernobyl e le cose perdute

Si possono perdere tutte le cose, ma nulla è come la perdita della propria identità. Quando Paul Auster pubblica Nel paese delle ultime cose è il 1987, un periodo profondamente intricato per la storia degli Stati Uniti. La guerra fredda con la Russia andava spegnendosi, mentre le paure che una guerra nucleare potesse distruggere il mondo ancora spaventavano molti strati della popolazione, soprattutto dopo la catastrofe di Chernobyl, avvenuta solo un anno prima. È normale, allora, comprendere quanto gli effetti del dramma ucraino abbiano influenzato la scrittura del romanzo, e quanta tensione ci fosse alla sua uscita, rovine che ancora oggi rimangono, anche trent’anni dopo.

Nel paese delle ultime cose.

Nel paese delle ultime cose veniamo immediatamente gettati in questo mondo caotico e post apocalittico, di cui non sappiamo nulla, se non che tutte le vecchie abitudini sono scomparse. Sappiamo delle gesta silenziose di un nuovo governo, caratterizzato da eterni scontri per la conquista del potere fra due nuovi schieramenti, che con la politica non hanno più nulla a che fare, sappiamo che la polizia e il servizio di pulizia sono ancora in funzione, e che la moneta corrente ora è il glots, ma tutto il resto pare perduto per sempre. Non è chiaro nemmeno se la situazione riguardi tutto il mondo o soltanto questa sconosciuta città, poiché le uniche informazioni le dobbiamo ad Anna Blume, la protagonista, che le riporta in questa specie di diario-lettera verso un destinatario sconosciuto su cui si fonda l’intera narrazione. Una lettera dedicata ai mondi perduti. Il problema, così tra gli altri modi è chiamata la catastrofe, non ha solo eliminato le pratiche sociali ma ha determinato un sensibile cambio anche nelle manifestazioni atmosferiche, che continuano a lacerare le parti più fragili della città e non seguono più il normale procedere delle stagioni. Un panorama desolato di poche persone che, come gli edifici dei quartieri in cui sono divisi, subisce un costante processo di rovina. Le professioni sono scomparse e l’unico modo per guadagnare denaro da reinvestire in effetti di prima necessità, perché è impossibile risparmiare, è rubare, uccidere e scavare nell’immondizia alla ricerca di qualcosa che possa essere riutilizzato. La vita è estrema, la maggior parte ha perso praticamente tutto, il passato è cancellato e il futuro ha poche speranze trasformandosi presto in una minaccia. I rapporti così, si sono evoluti in lotte per la sopravvivenza, in cui solo i più forti – o fortunati – possono farcela. È proprio questo il maggior effetto della narrazione austeriana, comprendere quanto le mutate condizioni del mondo possano influenzare la vita e l’identità di chi le vive.

Senza nessun preavviso veniamo gettati dentro la storia e dobbiamo per forza seguire ciò che ci dice Anna dei suoi primi otto anni nella città. Le prime descrizioni del nuovo mondo sono anche le ultime che riceviamo, tanto la storia si attacca all’esperienza individuale. In maniera diversa da La strada di Cormac McCarthy questa descrizione terribilmente umana (troppo umana) della perdita di ogni cosa finisce per rimettere in questione ogni nostro rifermento. Durante i suoi pellegrinaggi a caccia di cibo e di denaro, Anna si trova davanti a numerosi bivi etici, in un confronto serrato fra la morale del passato, ormai cancellata, e il formarsi di una nuova e sanguinolenta che non prevede ripensamenti. Ad essere perdute, in questo romanzo, non solo soltanto le cose, ma sopratutto le persone e la loro umanità.

La natura da temere.

La natura non è più sotto controllo, come se lo fosse mai stata, e i repentini cambi di tempo e temperature hanno reso impossibili le previsioni, trasformandola in un nemico sottile ma letale, più degli essere umani, che continuano a essere pericolosi, ma non quanto trovarsi in mezzo a una tempesta che ti bagna, conducendoti a morte certa. Le case continuano a esistere, ma solo per pochi fortunati, gli altri vivono e muoiono sulle strade o in rifugi improvvisati. Ma è proprio in questa situazione di sopravvivenza estrema che i rapporti si fanno ancora più indispensabili. Nessuno può vivere da solo, allontanandosi da tutto, tanta è la necessità di recuperare cibo e vestiti, che puoi ottenere soltanto lavorando o rubando, per guadagnare i glots necessari all’acquisto. Si tratta solo degli aspetti più urgenti e superficiali che la perdita dell’idea di controllo della Natura causa nelle persone. Uno stato di allerta continuo che porta gli abitanti della città a trovare soluzioni alternative e, a tratti, inconcludenti. Anna sembra avvertirci di questa perdita totale, come una messaggera dal futuro, e ci dimostra quanto la lotta per la sopravvivenza può portare l’uomo a compiere azioni che prima avrebbe guardato solo con disgusto. Così nascono nuove religioni e nuove chiese, ognuna con i propri rituali, come gli Striscianti, divisi anche loro in due differenti dottrine (i Cani e i Serpenti), convinti che solo mortificandosi possano placare la rabbia di Dio, o chi per lui. Allo stesso modo del suicidio e della case dove l’eutanasia è diventata un servizio offerto alla popolazione, diventano risposte per affrontare questo destino irrimediabile. Accanto una terribile conclusione: le persone continuano a vivere soltanto perché è l’unica cosa che sono in grado di fare, e per questo devono smettere di pensare, liberare la mente dalle coordinate etiche del passato, mettendo un piede davanti all’altro fino all’arrivo della morte.

Una delle conseguenze più dolorose del disastro è, però, la perdita del linguaggio. Per Auster le persone sono ciò che sono, indipendentemente dai giudizi filosofici e morali del caso, solo quando sono incluse in un ambiente a loro adeguato (la città) che possono interpretare tramite il linguaggio. L’eliminazione di queste due costanti all’interno dell’equazione non può che farla dipendere interamente dalle sole variabili e, quindi, nell’incontrovertibile direzione verso il Caos. E così, una volta che le cose scompaiono, si perdono anche i termini per definirle, fino alla creazione di un linguaggio fantasma, per quegli individui destinati a scomparire.

Paul Auster e la metropoli.

Non è difficile nelle opere di Auster ritrovare personaggi e situazioni simili in romanzi del tutto estranei. È il caso dell’idea di sliding-doors, o dell’effetto farfalla che è parte della teoria del Caos, questo pensiero secondo cui ogni scelta produca effetti del tutto indipendenti e che accomuna La musica del caso (1990) a quasi tutti gli altri romanzi. Un effetto simile accade se si confrontano Città di vetro, prima parte della Trilogia di New York, con Nel paese delle ultime cose. Nel suo primo romanzo, nonostante le differenze ambientali, la perdita dell’identità rimane un concetto fondamentale. Il disastro di Daniel Quinn è rappresentato da una chiamata nel cuore della notte e nella sua accettazione volontaria di assumere la parte del detective sconosciuto che stavano cercando dall’altra parte del filo, fino alla pazzia finale causata proprio da questo cambio di identità. In maniera solo apparentemente diversa da Nel paese delle ultime cose, qui, lo scomparire è volontario e non più imposto dalle condizioni esterne. Auster riesce ad approfondire così il tema della perdita di se stessi da due punti di vista opposti, uno autoimposto, l’altro dall’ambiente che si vive. La metropoli diventa così il luogo ideale in cui scomparire e arrivare a quell’anonimato così tanto desiderato. In entrambi i casi, però, si tratta di un’arma di difesa, contro la vita e le sue possibili cadute in Daniel Quinn, e contro la morte e il dolore che il passato può causare in chi lotta per sopravvivere come Anna Blume. Ma i rischi, dopotutto, sono gli stessi: come puoi sopravvivere senza sapere chi sei veramente? E come puoi sopravvivere nella catastrofe ricordandoti costantemente chi sei? È un gatto che si morde la coda, quello che prevede la comprensione di se stessi.

Tutto questo sembra trovare un’ideale sintesi in Sunset Park, l’ultimo romanzo austeriano pubblicato. Qui il protagonista, Miles Heller, è fuggito dalla sua vita per problemi personali e famigliari, cercando di ricostruire la propria identità altrove, scomparendo anche lui. Il suo lavoro è, non a caso, quello di fotografare le case abbandonate dagli inquilini sfrattati o impossibilitati a pagare il mutuo, collezionando, in qualche modo, gli oggetti da loro abbandonati nella fretta della fuga. Ancora una volta quella dura lotta fra la città e i suoi individui, senza uscita, dove poter attestare il fallimento degli altri diventa una dura e ultima consolazione. Tutti e tre i personaggi manifestano in questa guerra personale la loro appartenenza a qualcosa di simile, che supera ogni altra definizione letteraria. Solo tramite la scoperta (e la difesa) della propria identità si possono affrontare i problemi che la vita mette davanti a ognuno, sembra dirci Auster. Le cose perdute di Anna sono le stesse che Miles Heller trova nelle case abbandonate di Sunset Park, allo stesso modo in cui Daniel Quinn accetta di essere qualcun altro nella sua città riflettente. Ognuno per la propria ragione cerca di trovare se stesso nella scomparsa di ogni cosa conosciuta, che è poi l’unico modo per recuperare ciò che è immateriale, come le cose che perdiamo senza accorgercene.

Paul Auster disegna costantemente le esistenze nei loro mondi innaturali, fatti di palazzi, soldi e cattive scelte, descrivendo le storie di fallimento e reazione fino all’ultima sconfitta. Così è per Anna che tramite strade non convenzionali ritrova la forza per sopravvivere. La natura è fondamentale, e anche quel rapporto che non possiamo rompere con le nostre origini. In un modo complesso Auster, durante il periodo nel paese in cui tutto si è perso, fa compiere ad Anna un percorso di formazione ideale, che le permette di reagire soltanto finché la sua comprensione riesce a estendersi oltre i problemi esterni per ricongiungersi alle parti più interiori. È impossibile fuggire da questo drammatico percorso di autocoscienza, di perdere e riguadagnare ciò che siamo, senza bisogno di parafrasare David Hume. Ciò che facciamo, invece, è (non più, secondo quello che ci dice Auster, se continuiamo a combatterci per futili motivi) una nostra decisione. E di Chernobyl, a guardarci bene attorno, ce ne sono più di quante crediamo.


Photo Credits
Copertina, 1 – 2 – 5 : Foto da Chernobyl
3 – 4 : Gemma Schiebe, dalla serie “Loneliness in the City”
Tutti i diritti appartengono ai loro autori

Exit mobile version