Pearl Jam – Lightning Bolt

Se mi avessero detto nel 2003 che dieci anni dopo i Pearl Jam sarebbero giunti al loro decimo album in studio, probabilmente non sarei riuscita a crederci. Dall’alto dei miei quattordici anni, in quell’insieme confuso che era la mia cameretta da teenager, avevo incollato alle pareti i poster dei Nirvana, sovrapposti a quelli dei Soundgarden, dei Foo Fighters, di Chris Cornell e così via, mentre Eddie Vedder e soci occupavano un angolino dietro la porta. Soltanto nel 2008, con l’uscita della colonna sonora di Into the Wild, realizzata dal leader dei Pearl Jam, ho ripreso in mano dischi come Ten, Vs. e Vitalogy, fortunatamente non troppo tardi per cambiare la mia opinione sulla formazione di Seattle.

Gli anni intanto passavano e cresceva anche l’attesa che il sentimento che quelle tre pietre miliari erano riuscite a creare si potesse rinnovare ancora una volta. Ma se con Backspacer non era stata rielaborata l’attitudine tipica degli anni Novanta, quello che oggi – a quattro anni dall’ultimo album – hanno fatto i Pearl Jam è stato proprio rimettersi sui propri passi grazie anche all’aiuto di Brendan O’Brien, il fautore dei loro primi e più grandi successi, unendo il lato ruvido degli esordi a quello melodico-cantautoriale della stagione solista di Eddie Vedder. Come tutte le grandi riapparizioni, anche quella dei veterani del grunge con Lightning Bolt, dividerà e già traspare dalle prime voci del web come la critica sia divisa in due fazioni: quelli che li condanneranno a ritirarsi dalle scene e quelli che invece sapranno cogliere ciò che di buono si può leggere in questa raccolta.

Scordatevi di trovare in queste dodici canzoni un nuovo inno generazionale, non attaccatevi agli spettri del passato e non lasciatevi influenzare dalle centinaia di recensioni che vi capiteranno sott’occhio, anzi se siete arrivati a leggere fino a qui vi consiglio di non andare avanti con la lettura finché non vi sarete presi un’ora del vostro tempo per almeno due ascolti intensi dall’inizio alla fine e non pensate a quali siano i pro e i contro, accontentatevi di ascoltare soltanto. Dopo questa piccola premessa, torniamo a noi e finalmente al disco. Getaway apre le danze e non ci sono dubbi, i Pearl Jam del 2013 hanno ancora il piede fisso sull’acceleratore ed energia da vendere, la batteria incalzante, un ritmo che scuote e che prepara ad un pogo senza violenza, quasi una danza dai movimenti decisi.

Dall’impatto decisamente più punk è, invece Mind Your Manners, scelta come primo singolo estratto dalla raccolta e che mantiene l’originalità dei Clash, non dimenticandosi di apparire fresca e vivace come in una canzone dei Ramones. My Father’s Son, dalle sonorità meno incisive e diversamente dall’omonima traccia di Joe Cocker affronta il rapporto non sempre facile tra padre e figlio, ma non convince fino in fondo, così come Infallible, ballata poco riuscita, difficile da contestualizzare all’interno di un genere preciso e ancor più sbiadita in alcuni vocalizzi che ricordano quelli di Steven Tyler. Decisamente meglio per Sirens, secondo dei due singoli svelati dai Pearl Jam e che tra tutti i brani è quello più orecchiabile ed anche uno dei più intensi, capace di riscaldare le ossa nei primi freddi autunnali, diventando una perfetta canzone d’amore struggente e romantico.

L’aspetto particolare di questo disco è la velocità con cui i Pearl Jam – più che in ogni altra produzione – riescono a passare da un registro all’altro senza risultare innaturali: si passa dal vortice rock di Lightning Bolt alle atmosfere psichedeliche e tetre di Pendulum, seguita da quelle folk di Swallowed Whole, rivitalizzata dalle buone vibrazioni del Vedder solista e poi ancora gli eccessi dei bluesmen americani che alimentano Let The Records Play, penalizzata però da una navigazione mainstream di acque ampiamente sondate. Le ultime tre tracce di questa decima fatica targata Pearl Jam – Sleeping Myself, Yellow Moon e Future Days – forse non rappresentano la prova migliore dell’album, ma vengono concepite per non sgretolare i frammenti di una fase molto intensa dell’operato della band statunitense, probabilmente per certi versi ancora in fieri.

La percezione che molti avranno di Lightning Bolt è che i Pearl Jam abbiano fatto il loro corso, rimasti senza l’ispirazione e le idee innovatrici che erano soliti caratterizzarli, ma per come siano riusciti a ricreare – quasi come fosse un best of – atmosfere e suoni di quei mitologici anni di trionfo combinandoli a paradossi sensoriali di oggi, non si può che continuare a sottolineare il merito e l’onore di essere rimasta l’unica band superstite al tornado che ha investito il grunge dei Novanta. Onere più che onore, i continui paragoni con il passato ogni tanto fuorviano anche i più attenti ascoltatori, il monito è quello di non lasciarvi ingannare dalle apparenze.

Exit mobile version