Pitchfork Music Festival 2018, Paris | Non si esce vivi dagli anni ’80

photo credits ©Vincent Arbelet

“Non si esce vivi dagli anni ’80” era il refrain di una canzone dal titolo omonimo degli Afterhours, ma anche di uno sketch che Omar Fantini ha portato per anni sui palchi di Colorado (tanto da farne un libro per la Mondadori).

Oggi “Non si esce vivi dagli anni ’80” può descrivere bene anche il tema di questa ottava edizione del Pitchfork Music Festival di Parigi e, in generale, un costante sentimento di revival in tutto l’Occidente – per emulare? Celebrare? Ricordare? Inserite voi il termine che preferite – i fasti di un tempo in cui i capelli erano cotonati, i mixtape si facevano sulle audiocassette e i sintetizzatori erano lo strumento del momento.

Come ogni anno, il cuore dell’evento è stata la Grande Halle de la Villette, un ex mattatoio all’interno del Parc de La Villette, un complesso di edifici al 19esimo Arrondissement interamente dedicato a iniziative culturali, dai festival di musica al cinema all’aperto. Una tre giorni di concerti (1-3 Novembre) per inaugurare l’autunno e lanciare il meglio della musica indie internazionale.

Un concetto, quello dell’indie, molto sottile ma che si può sintetizzare con: tutto quello che viene prodotto secondo la golden rule del “Do-It-Yourself” (DIY) – fallo tu stesso. Oggi il genere indiependente – che, comunque tocca anche la moda, il cinema, la letteratura (tutti coperti dalla nostra rivista omonima) – è diventato mainstream, proprio perché così esteso e trasversale a tutti i livelli culturali.

E dunque anche Pitchfork, che si presenta come la rivista di musica indie più influente di tutte, ha rispecchiato questo andamento con la programmazione del festival: John Maus, Mac DeMarco, Car Seat Hardest, Unknown Mortal Orchestra, Snail Mail e Bon Iver, condividono tutti lo stesso percorso, ovvero dalla loro cameretta o garage ai palchi di tutto il mondo. Non solo nomi, mainstream tra gli indiependenti, come questi, ma anche altri 46 gruppi – “tra i più esaltanti del momento” – hanno riempito il cartellone “Avant-Garde”, una sorta di aperitivo di festival che si svolge in alcuni locali attorno la Bastille nei due giorni precedenti al vero e proprio evento (30 e 31 Ottobre). A questi, vanno inoltre aggiunti i dj degli after parties, che con live di elettronica hanno dominato fino al mattino l’esclusivo locale Trabendo, accanto alla Grande Halle.

photo credits: Alban Gendrot

 

Il Giorno 1 è quello dei fanatici degli ’80 più spudorati; o vestiti con un cappello da baseball rosso, camicia a quadri e Vans su calzettoni bianchi, come i kids di Stranger Things – o meglio, Ritorno al Futuro – mai cresciuti, se fan di Mac DeMarco; o con camicia chiara, pantaloni scuri e caschetto, se figli dei figli degli Joy Division, ovvero i fan di John Maus. Nel mezzo ci sono una categoria completamente a sé, quella dei seguaci dei The Voidz, un gruppo che è inevitabilmente catalizzato dal suo cantante Julian Casablancas (ex enfant prodige del rock indie newyorchese dei primi anni Duemila con gli Strokes).

Il live funziona così: ci sono due palchi, l’uno di fronte all’altro; quando una band finisce di suonare su uno, inizia l’altra di fronte 5 minuti dopo. Quindi c’è un via-vai di gente da una parte all’altra del campo come una pallina di ping-pong. Quando non si è presi dal concerto, è inoltre possibile prendere da bere nei bar che si trovano in mezzo, a fare da spartiacque tra una parte e l’altra della sala. Di fianco anche tanti mercatini di vintage, dischi, merchandise, ecc. ecc. Tutti i pagamenti sono in cashless – ovvero senza contanti – una volta entrati ci si ricarica il proprio bracciale-biglietto e si paga con quello tutte le transazioni (è una pratica ormai consolidata in tutti i festival europei). E chi non ha potuto partecipare di presenza, ha potuto comunque seguire da casa i live in diretta tramite il portale Culturebox che, in partnership con La Blogothèque, ha ripreso tutto il festival.

È chiaro da subito che il primo giorno i tre nomi di punta sono appunto John Maus, The Voidz e Mac DeMarco.

John Maus live.
photo credits: Alban Gendrot

Il primo si muove sul palco come l’Orlando Furioso, canta e sbraita impazzito da una parte all’altra dello stage mentre la folla lo segue completamente sotto effetto dell’incantesimo à la Ian Curtis.

Alla volta dei The Voidz, il pubblico è già bello “caldo”. Anche Julian Casablancas è molto esaltato (come sempre), sembra un po’ sull’orlo di una crisi di mezza età – ha 40 anni ma si veste come i 17enni in pieno momento Goth – fa battutine tra una canzone e l’altra – “adesso la faccio io una review al Pitchfork: è amico degli artisti e il festival dei ragazzini” – o yodeling. Il gruppo sembra messo su apposta per permettergli di continuare a fare la rockstar: sembra di andare a un concerto degli Strokes senza sapere le canzoni degli Strokes.

Infine, Mac DeMarco, una garanzia soprattutto nei live ai festival. Mette su una bella performance, con alcune versioni molto “lounge” delle sue canzoni, i soliti scherzi – fa salire sul palco un autista di bus, poi un ragazzino, e chiama il pubblico a salutarli calorosamente – annuncia che quella del Pitchfork è l’ultima data di 3 settimane di tour oltreoceano, tra alcol e sigarette, ed è esausto. Lo show termina con una delle hit più amate, Together, interrotta da un assolo del chitarrista Andy White che poi si mette a fare un discorso-burla elettorale (dal min 58) per candidarsi a sindaco di Parigi: “please respect me, I respect you, I don’t expect your vote, but if you believe the things I believe in then maybe you’ll vote for me. I am against fascism, I will crash them everywhere Ill see them, I am pro-refugees, I will tax the wealthy, I won’t spare the welfare state, I will pay teachers, and also: I am pro-vampire, halloween, werewolf and Moby!”

[Mac DeMarco saluta i fan de L’Indiependente]

 

Il Giorno 2 è quello più R’N’B. Scopriamo subito le carte: la performance più bella la regala Blood Orange. La formazione è pure abbastanza semplice: basso, batteria, Dev Hynes che si alterna tra chitarra e piano, tastiere, sassofono e due coriste d’eccezione. Il progetto musicale di Blood Orange è una delle novità musicali più interessanti degli ultimi anni; il suo creatore Dev Hynes è uno di quei talenti troppo eclettici per fare una cosa sola: è stato infatti anche produttore di band come i Blondie, The Chemical Brothers, Florence & the Machine, A$AP Rocky, ecc. E la sensazione che si ha durante il live è quella di risentire lo spirito di Prince più vivo che mai.

Altro nome degno di nota è Kaytranada, personaggio difficile da mettere in una sola categoria; il suo dj-set tocca di tutto, dall’hip hop, al funky, all’r’n’b. Solo sul palco con un mega schermo alle spalle che proietta video psichedelici e frasi ad effetto come “DANCE TO THIS/TURN OFF YOUR PHONES”.

Kaytranada live.
photo credits: Alban Gendrot

Il Giorno 3 è il sabato conclusivo del festival e anche quello più elettronico, con i live che durano fino alle 6 del mattino. Qui ci ritroviamo i nostalgici degli ’80 più discreti, ovvero non troppo espliciti con le referenze musicali ma che comunque non dimenticano da dove provengono.

Gli Unknown Mortal Orchestra sono belli carichi, suonano tutti i pezzi più amati tratti dai loro ultimi album – tranne (purtroppo) l’ultima chicca, IC-01 Hanoi, pubblicata il 26 ottobre – e riscaldano fin troppo il pubblico prima dell’altro nome big in programma, Bon Iver.

Quest’ultimo è praticamente l’ospite più atteso di tutto il festival, se persino gli stessi Americani – ne ho conosciuto una di Seattle – vengono apposta al Pitchfork per vederlo. L’atmosfera è decisamente diversa da quella che avevano lasciato gli UMO; il pubblico è composto per la maggior parte da coppiette e Justin Vernon sembra aver assunto ufficialmente il ruolo di “cantore elettronico dell’amore moderno”. Tra luci e tastiere, effetti sulla voce e un sassofono, è tutto molto trippy et très romantique. Per chi è ansioso di saperlo: no, non ha suonato Skinny Love, neanche durante il bis.

Bon Iver live.
photo credits: Vincent Arbelet

Il festival dà inizio alle danze subito dopo, con una selezione di dj che fanno passare molto velocemente la nottata: c’è il francese Jeremy Underground, il tedesco DJ Koze, Avalon Emerson da Arizona, la coreana (berlinese d’adozione) Peggy Gou che non risparmiano nulla, anzi fanno scaricare tutte le energie che Bon Iver aveva condensato prima di loro.

 

Jeremy Underground Dj-set. photo credits: Alban Gendrot

Insomma, anche questa edizione parigina del Pitchfork Music Festival è stata un successo e si riconferma come uno degli appuntamenti musicali più in vista del panorama europeo, sia per il cartellone che per l’organizzazione. Alla fine “ne siamo usciti vivi”, e non possiamo che attendere la prossima in chissà quali vesti.

 

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