Playgreen festival. Il primo weekend

La nascita è sempre qualcosa di incredibile. La nascita di un essere, la nascita di un’idea, la nascita di un gruppo. E la cosa assume un valore ancora maggiore quando avviene in un contesto di aridità che a volte viene in mente pensare sia completamente sterile.

Per questo quando Valerio Zito mi ha proposto di supportare la nascita di un nuovo festival in Basilicata, a Vaglio di Basilicata per la precisione, non me lo sono fatto dire due volte.
Il Playgreen festival nasce in un contesto piuttosto difficile, un territorio che raramente risponde in maniera entusiasta alle ventate di novità, che scarsamente pubblicizza le iniziative e che difficilmente le appoggia. Ed è così che il festival nasce senza alcun patrocinio pubblico, ma come iniziativa totalmente privata.

Insomma una sfida non da poco.

Ma una nascita è qualcosa di incredibile. E così sabato nel tardo pomeriggio, complici anche un panorama mozzafiato ed un tramonto da cartolina, mentre affrontavo le curve per arrivare a Vaglio sentivo crescere una certa emozione.

Arrivo a Costa San Bernardo (il posto dove si è tenuto il festival) che stanno ancora ultimando il soundcheck, mentre nel bosco a due passi (letteralmente) già una ventina di tende si ergono sparse come i funghi dopo una pioggia. Poche persone si assiepano davanti il bancone sbevazzando e sentendo gli ultimi passaggi del soundcheck degli Omosumo (che in serata si sono divisi il palco con i Sycamore Age); sono quelli che del festival non si sono voluti perdere neanche una virgola. Finito il soundcheck mi è stato possibile anche scambiarci quattro chiacchiere con gli Omosumo in un’intervista (che tra qualche giorno potrete guardare) che è culminata con l’immancabile cartello che ci hanno dedicato.

Dopo questa piacevole chiacchierata (mentre i Sycamore Age finivano il loro di soundcheck) e dopo un’altra rinfrescata al bar (leggasi un paio di birre), si iniziano a sentire i primi suoni dal palco secondario: si tratta di un duo di polistrumentisti che si esibiscono in mezzo al bosco. Al loro inizio dalle tende hanno cominciato a far capolino sempre più le teste degli occupanti.

Verso la mezzanotte poi è iniziato il concerto dei Sycamore Age il cui rock progressivo dalle atmosfere astratte e dilatate hanno convinto molti a godersi lo spettacolo proprio dalla tenda, vista la vicinanza del palco e la buona acustica dell’area.

Personalmente ho preferito guardarli da sotto il palco e godermi la spettacolarità offerta da una band composta da ben sette elementi, molti di questi polistrumentisti (sezione di fiati compresa) e con un frontman, che ad una voce eccezionale unisce una notevole presenza scenica.

Guardare per credere

Dopo il live spaziale dei Sycamore Age (durato circa un’ora e mezza) è stato il turno degli Omosumo.
il cambio della guardia
Quando loro salgono sul palco la gente velocemente lascia le tende. La gran parte si aspettava di incontrare un gruppo sulla falsa riga dei Dimartino che negli anni passati più volte si erano esibiti nei paraggi. Al sentire il pezzo d’apertura Nowhere si è capito subito che gli Omosumo sono tutt’altra cosa. Ed infatti il suono si fa subito potente, la drum machine detta i tempi, il basso di Antonio Di Martino fa muovere i sederi, la chitarra acida e granitica di Roberto Cammarata crea stratificazioni sonore su cui la potente voce di Angelo Sicurella è libera di esprimersi al meglio; risulta spettacolare la sinergia che si crea tra strumenti analogici e strumenti digitali.
La gente sotto il palco balla.
Dopo un’oretta buona  i tre hanno lasciato il palco ma immediatamente sono stati reclamati a gran voce, e appena risaliti, mentre Cammarata e  Di Martino iniziano a suonare un pezzo tutto synth e drum machine, Sicurella intona Whole lotta love (si proprio quella dei Led Zeppelin) e lo fa con un certo mestiere. Così il concerto è durato ancora un’altra ora con un’altra breve interruzione (gente esaltata dalla platea ha iniziato ad urlare senza nessun contegno “viva la Sicilia!”) fino alla conclusiva Costano le Drum Machine in questo live prolungata di parecchio rispetto alla versione in studio.
Il live ha lasciato tutti senza fiato, ma non senza energie e così fino alle 6 del mattino un paio di dj si sono alternati alla consolle organizzata in mezzo al bosco.
Dopo una breve pausa di sonno, la macchina del festival si riavvia e alle 11 di domenica mattina inizia un dj-set electro-rock, a cura di This is Indie Rock, a bordo piscina che finisce solo alle 16. La gente passa direttamente dalla tenda all’acqua (vabbè qualcuno si ferma al bar nel frattempo), complice anche la splendida giornata.

Sicuramente questa due giorni (ma il festival consta di altri due week end) avrà avuto delle pecche, così come sicuramente in giro ci sono festival maggiori che vantano line-up più altisonanti, ma calato nel contesto in cui è nato, il Playgreen è un festival di tutto rilievo che può vantare dalla sua delle peculiarità interessanti(in primis il luogo dove è stato organizzato).
Mi auguro che l’organizzazione regga anche senza il finanziamento pubblico (che di certo non guasterebbe, ma questa è un’altra storia) e che l’anno prossimo ci possiamo ritrovare a parlare della seconda edizione del festival. Per il momento posso dire di aver assistito alla nascita di qualcosa di valido.
Ed assistere ad una nascita è sempre qualcosa di incredibile.

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