Poesia e Civiltà: Giovanni Truppi ci racconta il nuovo album

Pur non mai fosti tanto sola,
vedi: appena mi senti;
nel bosco io sono un mite vento,
ma tu, tu sei la pianta.

(L’Annunciazione, Rainer Maria Rilke)

Seminascosto, compreso, appena accennata presenza umana nel folto del fogliame boschivo, ha scelto il verde Giovanni Truppi per la copertina del suo quinto album Poesia e Civiltà. Un album che è una dichiarazione di responsabilità, un invito alla coscienza e al salto, a un passo dal burrone: In piena crisi del capitalismo, In un episodio di Black Mirror. Undici pezzi a forma di intensissima sessione, di tuffo, volo e vertigine: nell’Io, nell’Altro, nelle radici comuni. Lontano dal dicastero della volgarità e della nutella, dall’odio e dalla ferocia di questi tempi indifferenti, Truppi, ragazzo adulto refrattario al clamore riscrive il cantautorato italiano. Una voce: limpida e diretta; piano, sinth, ma anche archi e arrangiamenti stratificati per un disco maturo, forte e ricercato. Nell’elaborare questa introduzione ho sbagliato più volte a scrivere “piano”, cambiandolo in “pianto”. Perché Poesia e civiltà è un salto e una mano tesa: oltre il dolore, la paura e l’individualismo. Rinascere non è mai stato facile.

La copertina del nuovo album di Giovanni Truppi

Ascoltando Poesia e civiltà mi sono sentita trascinata, coinvolta nel “parto del futuro”. L’intensità di questo album è sconvolgente (complimenti), arriva fortissimo e se ne percepisce l’urgenza. Cosa è urgente comunicare per te, adesso?

Quello che è urgente per me – lo era nel corso della lavorazione di Poesia e civiltà e lo è ora – è la crucialità del rapporto tra le nostre azioni e ciò che ci circonda e l’irripetibilità dell’esperienza della vita.
Credo sia a partire da questo che ho sviluppato le riflessioni e le emozioni che sono finite nel disco.

È un album che, sin dal titolo, rimanda a una dimensione di responsabilità civile e a una tradizione cantautoriale “impegnata”, che affonda le sue radici negli anni Settanta. Ci si ritrova molto Battiato, ma anche Gaber, De André, Lolli. A prescindere dalle influenze, che sono inevitabili, che effetto ti fa essere tra i pochi – forse l’unico attualmente in Italia, che può essere accostato a questi giganti del passato?

Vivere questo mestiere con una determinata attitudine è una questione personale che non considero legata ai risultati artistici. Se a questo aggiungiamo il fatto che nell’arte sono state raggiunte vette altissime senza alcuna ambizione alla responsabilità civile molto più di quanto non sia avvenuto il contrario, puoi immaginare che non mi sento particolarmente speciale.
La riflessione che quello che affermi mi porta a fare è che la percentuale di disimpegno fra i cantanti (che di per sé non è grave) riflette quella di altri settori della società. Questo sì, mi fa sentire tra pochi (come persona) e non mi fa un bell’effetto.

Borghesia, il brano di attacco (in più sensi) dell’album, è una critica a una declinazione dell’essere che ha fatto prevalere l’avere “sempre un po’ di più” sull’essere, appunto. Ma in filigrana si intravede anche il rimpianto, il senso di un’occasione sprecata. Quando e come la borghesia si è persa? È la decadenza dei costumi, come fu per l’Impero romano d’Occidente, a determinare la fine di un’epoca, di quest’epoca?

Mi è capitato di leggere che in ogni periodo storico ci si sente alla fine di un’epoca e sono sospettoso nei confronti del concetto di “decadenza dei costumi”: i costumi si trasformano e spesso chi appartiene ad un periodo storico tende a giudicare negativamente i costumi di quello successivo semplicemente perché non sono i suoi.
Più che alla fine di un’epoca mi sento all’inizio di una nuova. È difficile leggerla dall’interno e certamente il fatto che quelli che erano degli spartiacque sporadici (le trasformazioni tecnologiche) intervallati da lunghi periodi di assestamento siano diventati sempre più frequenti non aiuta a prendere le distanze necessarie per farlo.
Da migliaia di anni l’umanità ha la possibilità, semplicemente esistendo, di diventare migliore e di solito chi ha maggior potere ha più possibilità di imprimere cambiamenti. Mi sembra che la borghesia sia stata la protagonista dell’ultimo intervallo di tempo dotato di un’identità precisa che possiamo guardare un po’ da lontano, è alla fine di quel momento che credo si sia persa ed è per questo che l’ultima occasione sprecata per me è la sua.

Questo è il tuo primo disco con una major, la Virgin. E presenta molte differenza con la tua precedente produzione. Già con Solopiano ci avevi dato prova della tua voce, che quando rinunci ai divertissement e agli esercizi di stile del parlato/cantato, arriva forte e limpida, “come da Conservatorio”. In più lo hai registrato negli Stati Uniti; le chitarre sono sparite e oltre al piano e ai synth ti avvali di una sezione di archi e di arrangiamenti stratificati. È un disco strutturato eppure l’effetto è di straordinaria semplicità.

Mi fa piacere che la semplicità arrivi: ho lavorato molto in questo senso con Marco Buccelli ed era importante per noi che la stratificazione degli arrangiamenti (che era una cosa che ci interessava) non fosse fine a se stessa ma al servizio dell’ascolto.
Non perché volessimo semplificare le cose per forza ma perché la priorità di questo disco era comunicare alcuni temi e lasciare fluire le canzoni il più possibile.

Giovanni Truppi, foto di Maurizio Cogliandro

Uno dei temi che torna in Poesia e civiltà, ma era già presente negli altri tuoi album, è quello della maturità, del passaggio all’età adulta. I nostri padri e i nostri nonni, quando guardano alle circostanze che caratterizzano la nostra generazione, sono sempre indecisi tra il colpevolizzarci e il compatirci. La precarietà economica ed esistenziale, sfondo poco favorevole per i progetti a lunga scadenza, posticipa e in certi casi priva del più determinante rito di iniziazione all’età adulta: mettere al mondo figli. Nei tuoi testi sembri invitare alla responsabilità, alla scelta consapevole e fattiva di essere adulti, nonostante tutto. Sembri dire: le cose stanno come stanno, ma il futuro è nostro lo stesso. Il futuro è un atto di responsabilità?

Sì, penso di sì. Mi ritrovo con questa definizione, mi fa pensare al verso dei CCCP “la libertà è una forma di disciplina”.
Quello che dici dei padri e dei nonni di solito vale per ogni confronto generazionale e probabilmente è una specie di archetipo umano (un po’ come il pensarsi alla fine di un’epoca) quindi gli do un valore relativo; invece non sono sicuro che la scelta di procrastinare l’ingresso nell’età adulta derivi (solo) dall’insicurezza economica: ho l’impressione che sia il modello di vita occidentale ad imporre determinati standard di vita e di consumo che poco (o per pochi) si conciliano con la progettualità e l’oculatezza necessari – per esempio – ad avere dei figli.

Sin dal bosco stampato in copertina, l’elemento naturale appare come componente e sostanza di questo album. Dal verde del fogliame, alle cascate, alle vette, fino a burroni sentieri e le stelle: la natura è sentita come presenza viva. Le metafore: bellissime, di “Quando ridi”; il movimento di “Conoscersi in una situazione di difficoltà”, per esempio, costruiscono un’identità così forte tra il viaggio di scoperta di sé e dell’altro, e la geografia dei luoghi, da renderli quasi inestricabili. Luci e ombre si alternano e riverberano in chi ti ascolta. È un’operazione poetica, ma soprattutto spirituale, riuscitissima. Eppure tu dici che fai canzoni, non poesie.

Assolutamente sì (grazie per le belle parole): prima ancora che per modestia lo dico perché le reputo due arti molto distinte e rivendico l’autonomia della canzone.

La più grande e meravigliosa contraddizione di Poesia e civiltà è mettere assieme Marx e Dio. Non il Dio del dogma, certo e severo in formato catechismo, ma il Dio del dubbio e del dolore. Della misericordia e della solitudine, come in Adamo; del sentimento dell’Altro e della fratellanza come in L’Unica Oltre L’Amore. Un Dio che sostanzia di sogno la nostra vita, come ne I Miei Primi Sei Mesi da Rockstar. Quanto conta “rilanciare” Dio per restituire senso, corpo e splendore al “progetto umano”?

L’idea di Dio – a monte dei modi in cui è stata declinata – ha a che fare con il percepirsi, da parte dell’Uomo, come parte di un organismo più grande.
Qui mi sembra che si incontrino la religione e la scienza, Marx e Jung, e partire da questo concetto mi sembra il solo modo per costruire una “progettualità umana” che imprescindibilmente implica la ricerca del bene della Natura come di quello di tutti gli uomini, a tutte le latitudini del nostro pianeta.

A maggio si è conclusa la prima parte del tour di Poesia e civiltà. Tra pochissimo riprenderai con le date estive. Quali sono le tue impressioni riguardo ai concerti che ti sei appena lasciato alle spalle?

Sono molto contento di queste prime date. Sono entusiasta di questa band, sia perché avere un organico così composito mi dà la possibilità di riprodurre fedelmente il disco e di rivisitare le vecchie canzoni sia per le caratteristiche dei singoli componenti (sono tutti musicisti bravissimi), e sono colpito dalla risposta che mi sembra di percepire durante i concerti: uno dei complimenti che mi fanno più spesso i membri della band (questo è il primo tour con me per la maggior parte di loro) è “che bel pubblico che hai Giovanni” e devo dire che sono molto d’accordo.

 

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