Poesia e transizioni | Intervista a Giovanna Cristina Vivinetto

“Chi ha fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo? Noi, i poeti”, è con queste parole che Izet Sarajlic commentò l’assedio di Sarajevo degli anni Novanta. Ed è con queste parole che credo possa descriversi, in parte, per certi versi, il ruolo dei poeti e della poesia. Ecco, Giovanna Cristina Vivinetto è una delle guardiane notturne più instancabili di questo nostro avulso contemporaneo. Attenta e capace, con il suo occhio critico sa cogliere le sfaccettature di un tempo contraddittorio e che non si ferma mai. Siciliana di nascita e romana di adozione, ha esordito nel 2018 con Dolore minimo per Interlinea edizioni ed è tornata in libreria da qualche mese con Dove non siamo stati per Rizzoli. Vivinetto trasferisce sulla pagina tutta la sua esperienza umana struggente, intima e potente, mostrando a noi lettori panorami inediti e indicandocene di vecchi che finora non avevamo avuto l’abilità di vedere. Di vedere veramente. Di vedere veramente e di comprendere.

Con lei ho parlato del ruolo della poesia oggi. Delle involuzioni sociali che accompagnano il cammino dell’umanità. E del trasformismo di un’identità, l’identità di ognuno, che come un fiume che scorre modella le proprie sponde.


Razzismo, omofobia, egoismo di classe. Guerre civili, pulizie etniche, povertà assoluta. So che si tratta di una domanda parecchio astratta e complessa, ma si dice che i poeti certe cose le sentano prima: il mondo sta collassando?

Più che collassare sta perdendo la sua direzione. O meglio, a una direzione che può essere univoca, che vada verso il progresso e la civiltà, se ne stanno affiancando altre che vanno in qualche modo a delegittimarla. E un po’, in fondo, si delegittimano tutte a vicenda. Ognuna si fa testimone di un’idea e tutti pensano la propria sia quella giusta. Quindi più che un collasso c’è una proliferazione di strade, di direzioni che non sempre sono quelle giuste. In alcuni casi facciamo dei passi indietro, in altri facciamo dei passi avanti e in altri ancora restiamo fermi.

Nei casi che citi, omofobia e razzismo, ad esempio, nonostante i grandi passi avanti ho come l’impressione che stiamo tornando indietro. Forse soprattutto per delle politiche per cui viene spesso portata avanti una razza, un’etnia, un certo modo di fare. Come se dipendesse da queste differenze il tipo di società che costruiremo in futuro. Prendiamo la condizione sociale degli Stati Uniti d’America, lì il razzismo e l’omofobia si trovano a un livello così dilagante perché negli anni sono state adottate delle politiche (vedi Trump, il caso sicuramente più emblematico) che hanno trovato il loro principe: l’uomo bianco e il suo primato sulle altre razze. Ecco, si stanno affermando in modo subdolo teorie che per anni si è cercato di estirpare. Non solo a livello sociale, ma anche livello civile e giuridico. Questo è un problema. Ho letto un articolo sulle norme a favore della comunità LGTB in cui si diceva in Italia siamo al trentacinquesimo posto in Europa, insomma siamo il fanalino di coda. E questo è un dato che dovrebbe aprirci gli occhi. Perché apparentemente sembra che tutto vada nella direzione del progresso, ma in realtà poi a ben vedere anche interrogando la giustizia e le leggi non è così.

In Italia, ad esempio, manca una legge che condanni l’omotransfobia e io, quando sono stata in televisione all’Arena di Giletti, sono stata criticata da Mario Adinolfi. Mi ha insultata dicendo cose piuttosto tristi e pesanti e, quando mi sono informata con il mio avvocato per sapere se avessi potuto procedere, mi è stato detto che non avrei potuto fare niente: quelle calunnie sono considerate dalla legge italiana come delle opinioni e, siccome vige la libertà di pensiero, una persona come lui è libera di dirmi che “sono stata presa dalla strada”. Questo è gravissimo. L’atto fisico può quindi essere condannato, quello verbale no. Quindi sì, siamo ancora indietro e non so quanto tempo ci metteremo. Le differenze ci sono. È chiaro.

Qualche giorno fa ho letto uno stralcio di giornale degli anni ‘70 che diceva che le differenze in Italia a livello retributivo tra uomo e donna sarebbero state colmate nel 2020. Questa cosa mi ha fatto pensare, insomma siamo nel 2020 e le differenze ci sono eccome. Tutta la società occidentale purtroppo oggi è caratterizzata dalle disparità. Si fonda su questo, sulle differenze. E con il tempo stiamo collassando, sì, ma in maniera poco percettibile. Tutte queste modificazioni all’indietro di cui stiamo parlando avvengono su un piano che è decisamente poco percettibile agli occhi delle masse. Questo fa paura, è qualcosa che non si può controllare direttamente. Anche perché viviamo in una società in cui ogni cosa che accade deve essere messa in discussione. Quando ad esempio sono stata licenziata dalla scuola dove insegnavo, molte persone sotto i post su Facebook scrivevano cose del tipo “eh, ma lei…”, come se io mi fossi cercata il licenziamento. La vittima diventa carnefice. Questo dipende dal fatto che le differenze ci sono ma non sono percettibili. Molto di tutto questo dipende da una cattiva istruzione, ma molto anche dalla memoria. Ricordandosi ciò che di cattivo è avvenuto in passato siamo capaci di evitare che ciò si ripresenti allo stesso modo. Senza memoria non esistiamo.

È come se ci fosse uno scollamento, credo. Uno scollamento tra l’individuo e lo straniero, per così chiamarlo, che gli si para davanti. A cosa pensi sia dovuto?

Lo scollamento di cui parli c’è. È evidente. E io lo individuo nei social. I social creano uno scollamento tra realtà reale e realtà percepita che è veramente allucinante. Fanno da cassa di risonanza a tutto quello che è falso, a tutto quello che non ha un fondo di verità. Avviene quindi uno scollamento tra l’individuo che ragiona e l’individuo che parla e basta, senza farsi un’opinione. Questo ce lo diceva anche Eco. Prima dei social c’erano delle categorie più o meno visibili che potevano parlare. Informare. Adesso ognuno può dire la propria e ognuno ha la stessa legittimità di farlo. I social non hanno filtri per quanto riguarda le idee, ed ecco la proliferazione delle fake news che vengono anche adottate dalla politica da determinati gruppi che per conquistare il consenso sfruttano questi mezzi per adescare le persone che non riescono a mantenere una lucidità nel giudizio. Vedevo un servizio, ad esempio, che spiegava come Salvini utilizzi delle vere e proprie campagne pubblicitarie con dei post che erano delle fake news. È un modo per creare consenso, far accrescere le emergenze e aumentare lo scollamento tra le persone, aumentare la lontananza.
I social sono un’arma a doppio taglio.

In questo contesto dove e come si inserisce la poesia?

In linea di massima anche tra gli addetti ai lavori la poesia è qualcosa che non vende, qualcosa che non ha voce, qualcosa che non ha capitolo. Qualcosa che non serve. E gli stessi poeti utilizzano questo pregiudizio a loro favore, come per elevarsi. Pensano che a loro non serva essere letti, dicono che lo fanno per essere elitari. Ma non è così. La poesia ha avuto fino al Novecento una funzione sociale importantissima. Era un mezzo importante sia da un punto di vista sociale, sia per le vendite.

Qualche tempo fa parlavo con un professore che mi ha detto di avere reperito una ristampa de I colloqui di Gozzano, e in quarta di copertina c’era scritto “quarta edizione, decimillesima copia”. Oggi diecimila copie non le vende neanche un romanzo, un libro di poesie viaggia su cifre che sono meno della metà. Gozzano scriveva all’inizio del Novecento, quindi in un periodo in cui il tasso di analfabeti in Italia era altissimo. Le persone che leggevano erano poche, e il fatto che oggi di lettori ce ne siano di meno vuol dire che non leggono neanche gli addetti ai lavori.
Sentire che duemila, tremila copie vendute sia un numero altissimo a me fa anche arrabbiare, in un certo senso. Ma questo non è un discorso da fare solo per la poesia, è un fatto che ha a che fare con l’intera filiera del libro. Su questo discorso mi sono confrontata anche con Nadia Terranova. Lei è un’autrice Einaudi, è stata candidata allo Strega eppure ha venduto appena trentamila copie, ecco io davanti questi numeri ero molto sorpresa, ma lei mi ha fatto capire che in realtà sono tante copie per un libro oggi.

Insomma, in Italia si legge sempre meno. Questo mi riporta al discorso di poco fa sul fatto che in realtà sotto certi aspetti stiamo regredendo. Ci troviamo in un periodo storico in cui l’accesso alla cultura e ai libri è maggiore rispetto a quello di cent’anni fa, ma la gente legge meno. La poesia però può essere ancora un grande mezzo sociale e civile, perché attraverso la poesia si possono far veicolare determinate idee in maniera molto più efficace anche rispetto alla prosa. Con la poesia si arriva direttamente al cuore delle persone e può essere uno strumento molto efficace per combattere le discriminazioni, per cantare un’epoca. Non è affatto un bene inutile. È uno strumento utile e ce n’è tanto, tantissimo bisogno. La poesia nasce dal bisogno di spiegare ciò che ci accade o che ci accade attorno, nasce come canto, come momento di riunione tra le persone, come strumento per preservare la memoria. Basterebbe pensare a come sono nate Iliade e Odissea. In fondo, erano delle poesie cantate che per centinaia di anni si sono tramandate così. Ecco, a noi manca ciò che gli antichi avevano: la prospettiva della poesia come mezzo civile e sociale. Questo lo abbiamo perso.

Cominciamo dal titolo della tua prima raccolta: Dolore minimo. Questo dolore viene dopo il più grande, mi pare di capire. È l’elaborazione di ciò che hai patito in precedenza, una sofferenza di gran lunga più forte. La poesia per te è quindi una sorta di anabasi?

Più che anabasi è catabasi, cioè discendere nel proprio inferno per poter riemergere ancora più luminosi perché l’inferno lo si è finalmente compreso. E questo vale per ogni dolore. Solo lasciandoci assalire da ciò che ci fa male possiamo riuscire a uscirne, ma semplicemente perché ne veniamo fuori temprati. Perché capiamo cosa ci sta succedendo. E spesso soffriamo perché fatichiamo proprio ad accettarle, queste cose. Il dolore diventa minimo quando lo si comprende. Se si affrontano le cose si impara a dare loro il giusto peso. Tutti noi andiamo incontro a situazioni drammatiche e con cui è necessario scontrarsi per poter andare avanti, questa è la base di Dolore minimo. Accettando il dolore, riconoscendolo come parte di noi, abbiamo quel qualcosa che serve per poterlo superare. Il dolore diventa minimo quando lo si ha compreso, quindi. Rimane lì, in sordina a ricordarci quello che è stato e con cui conviviamo. I problemi restano, siamo noi a vederli sotto una luce diversa. Il concetto di Dolore minimo è questo, un dolore che si ha imparato a minimizzare perché ci si può convivere.

Tu parli di una transizione, da qualcosa che eri e che non potevi essere a qualcosa che non eri ancora e che dovevi essere. Qualcuno una volta ha detto che “conteniamo moltitudini”. Credi sia così? E se sì, in mezzo pensi ci sia un’identità predominante?

Secondo me non ci sono più identità nello stesso momento, chiamiamolo sincronismo identitario. Ecco, secondo me l’identità è qualcosa di ben definito a livello temporale. Quello invece in cui credo è che le entità siano mutevoli a livello diacronico, cioè con il passare del tempo. Noi siamo tante persone quanti sono i momenti temporali che viviamo, è una cosa normalissima, secondo me. Una poetessa che amo, Antonella Anedda, scrive in una sua poesia che (in senso proprio biologico) ogni sette anni le cellule del nostro corpo si rinnovano, cambiano. Questo cambiamento è quindi qualcosa che esiste a livello biologico, figuriamoci a livello psicologico. Io credo che corso della vita noi attraversiamo tante identità, dove per identità intendo l’interazione tra l’Io, cioè la persona, e tutto quello che ha intorno. I cambiamenti esterni ci forniscono gli stimoli al cambiamento. L’esperienza ci porta a cambiare a livello identitario a livello profondo. Credo insomma in un livello identitario multiplo, ma solo nel tempo.

Accadere e riaccadere. Vivere e rivivere. Ne parli nella tua seconda raccolta. Ciò che mi chiedo, e che quindi ti chiedo, è se sia possibile riattraversare l’esistenza in un’altra forma, magari una migliore.

Prima parlavamo di cose che accadono, cose con cui scontrarsi per definirci. È però vera un’altra cosa, cioè siamo noi a tracciare il nostro percorso. Per me il dolore è stato minimo a fronte di una grande chiarezza mentale. Sapevo qual era il mio obiettivo, sapevo che era dentro di me e sapevo che quella era l’unica strada che potessi percorrere. Spesso si parla di problemi identitari con grande confusione. Ma in persone come me non c’è confusione, la confusione semmai arriva dopo, quando si impatta con una realtà che è diversa da quella che ci aspettiamo. Siamo noi gli artefici del nostro destino.

Quindi sì, si può riattraversarlo. In due modi. Con la memoria, siamo bagaglio della memoria di tutto quello che ci ha preceduto. E con la letteratura. Mi piace anche usare una metafora che viene usata da Eco. Lui parlava di determinate forme letterarie come di opere aperte, poiché con la letteratura queste opere potevano assumere significati sempre diversi. Ecco, è possibile riattraversare l’esistenza con la letteratura. Io ad esempio con Dolore Minimo ho cercato di tirare delle linee per andare a ritroso in un’esistenza che avevo attraversato ma magari non capito. È una cosa che ho fatto anche con il secondo libro, ho tracciato nuove linee narrative per comprenderle e chiuderle. Per dire addio a dei passi della mia vita che prima non capivo.

Questo vale per chi scrive e per chi legge ovviamente. La lettura, la cultura, i libri ci permettono di mettere in discussione qualcosa, ci ricuciono a fondo le nostre esistenze. Ci permettono di guardare meglio le cose. È vero, stiamo involvendo, leggiamo meno e abbiamo idee precostituite e sempre meno idee nostre. E la comunicabilità, l’interrelazione sono tra le cose più belle dell’arte.

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