“Pompeo” di Andrea Pazienza: il miglior romanzo italiano del secondo Novecento?

Questo articolo nasce da una considerazione – provocazione? – fatta da Vanni Santoni, scrittore e mai banale divulgatore letterario, che sui suoi social, oramai da tempo, identifica “Pompeo” di Andrea Pazienza come il miglior romanzo italiano degli anni ’80, se non addirittura di tutto il secondo Novecento.

Confesso di non amare troppo questa commistione fra mondi che sembra aver trovato particolare linfa: non riesco mai a condividere la scelta di candidare allo Strega un meraviglioso fumetto, così come mi successe di storcere molto più che il naso, quando il Nobel per la letteratura venne assegnato al gigantesco Bob Dylan. A queste dinamiche si aggiunga pure il discorso relativo al fumetto, che in questo paese oscilla tra la denominazione forzata di graphic novel per provare a dargli una dignità letteraria di cui non ha bisogno, e un mai domo complesso di inferiorità che sfocia in un cercare a tutti i costi una legittimazione culturale. Di conseguenza, di primo acchito, si potrebbe tranquillamente derubricare la sentenza di Santoni a mera provocazione. Una boutade figlia di questo zeitgeist e lasciata lì “per vedere l’effetto che fa”. Ma siamo sicuri che sia proprio così?

Facciamo un passo indietro: Andrea Pazienza, ineguagliato fumettista, scrisse e disegnò “Pompeo” a partire dal 1985, quando aveva ventinove anni, mentre la prima edizione completa in volume risale al 1987, un anno prima della morte di Paz. “Pompeo” doveva segnare la chiusura di una fase di vita personale e artistica ben precisa, per Pazienza, costellata dall’avvento del successo, dal Movimento del’77, da Bologna, Betta, IgorT, Frigidaire, Cannibale, Il Male. E poi Marina, il successivo trasferimento a Montepulciano, e l’eroina. Così centrale per la sua produzione fino a quegli anni e tragica linfa di storie dolorosamente autobiografiche – per quanto troppo spesso si tenda a identificare Pazienza solo con quest’ultime, quando in realtà pure la sua produzione più scanzonata e umoristica è di assoluto valore.

“Pompeo” vide la luce in un periodo di relativa calma, per Pazienza. Betta e Bologna erano lontane. Ora c’erano Marina e Montepulciano. C’era finalmente un qualcosa di più solido e meno tragico, nella sua vita. E proprio questo contesto di pace apparente gli consentì di guardare tutto ciò che gli era accaduto con la distanza necessaria per far sgorgare il dolore di un’opera così potente e capace di trasudare urgenza. Pompeo è un tossico che vive a Bologna, fa il fumettista e ha deciso di farla finita. Semplice. Tutto qua.

Pazienza ci fa immergere nei pensieri di Pompeo attraverso un unico e sapiente uso delle pagine su cui ha vergato la storia: pagine bianche, poi a quadretti, con correzioni, errori ortografici. Pagine che devono far capire al lettore l’urgenza: non c’è spazio per correggere, per ricopiare “in bella”. È un diario del dolore. E la storia parte. Una storia interamente in prosa su pagine illustrate, nella prima parte, senza l’uso del balloon tipico del fumetto tranne che per la pagina iniziale. Una prosa densa, ricca di neologismi, di un linguaggio quotidiano a volte ostico ma sempre comprensibile anche quando non lo si capisce: fondamentale per immergersi nella storia, perché quando si familiarizza con la lingua di qualcuno è più facile coglierne anche i pensieri. A un occhio poco attento, proprio questa lingua potrebbe essere figlia degli altri libertini tondelliani, ma in realtà ne è sorella, nata dalla stessa madre: la Bologna della seconda metà degli anni Settanta. Una sorella che però ha scelto la sua strada. Una strada fatta di qualche virtuosismo in meno e di cambi di registro siderali e di inusitata bellezza.

La prima parte di “Pompeo”, con “quel cielo così bianco” su splash page, come una litania, a chiuderne gli ipotetici capitoli, è scritta con una classe abbacinante ed è forse il momento più ostico dell’intero volume. Pazienza ti tiene bloccato sott’acqua, stordendoti con periodi complessi e una sintassi corsara per poi cambiare registro, aprire di colpo e far respirare il lettore. Da una pagina fitta che si conclude con: “Spazza col cespuglio, salendo, delle scale le volte, entra ch’è aperto, molla l’arbusto e guarda alla finestra”, Paz cambia registro e riempie la tavola successiva con un viso grosso come l’intera pagina, definito da pochi tratti, dove è il bianco del foglio a farla da padrone, un bianco che in un gioco ungarettiano – così come era ungarettiano, in un certo senso, l’ultimo periodo della pagina precedente – diventa protagonista di ciò che si vuole dire: “quel cielo così bianco”.

Pazienza non ti fa entrare gradualmente nel mondo di Pompeo: ti ci getta dentro a forza, e poi sei tu a dovertela cavare, e quando oramai hai trovato la chiave per decriptare il tutto, ecco che l’autore cambia nuovamente registro: arrivano i fogli a quadretti, e i momenti davvero intimi di Pompeo. C’è la sagoma di Betta e la struggente ripetizione di quella frase – “è dolcissimo non appartenerti più” – che può essere letta quasi come un manifesto programmatico di Pazienza relativo all’abbandono di quella sua prima parte di esistenza spicciola. I balloon gradualmente tornano a far parte della storia: ora il discorso diretto proprio del fumetto si alterna alla prosa con l’intento di rendere ancora più credibile la quotidianità di Pompeo, vedendo sgorgare le parole direttamente dalla sua bocca. Abbiamo: Pompeo con uno spacciatore logorroico che, sentendosi in obbligo di chiacchierare più del dovuto perché Pompeo è un artista famoso e gli va lisciato il pelo, fa sembrare infinito il tempo che separa il nostro eroe dalla sua dose; Pompeo con la tossica che non trova la vena, e allora lui la aiuta, con tutta la solidarietà di cui è capace; poi Pompeo con la polizia violenta e l’”ingrassa un po’, che fai schifo”.

Questo primo climax porta Pompeo alla rottura e a quel finale già anticipato nelle prime pagine; ma non andrà proprio così: altro cambio di registro e l’ingresso in scena di una nuova dimensione finora solo sfiorata: quella famigliare con la chiamata in causa della madre, del padre, del fratello. E poi un secondo climax, un finale ancora più struggente con un ritorno delle pagine a quadretti e un affastellamento di citazioni mai fini a sé stesse e anch’esse figlie di una Bologna che ha visto apparire alla Madonna Carmelo Bene, nel 1981. Dall’opera di Bene, attinge Pazienza. Dagli stessi poeti di cui l’attore si è nutrito: Majakovskij, Blok, Pasternak, Esenin, Byron.

Il libro si conclude con le due pagine finali di postfazione che sono parte integrante della storia e rappresentano forse una delle vette di maggior bellezza dell’intera opera. Opera, “Pompeo”, che non è né fumetto né letteratura tout court, e proprio per questo diventa uno dei pochissimi esempi di un qualcosa che riesce a essere entrambi: un fumetto e un romanzo. Il più bello degli anni Ottanta, come minimo.

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