Porches – The House

A due anni dall’uscita di Pool non mancavano le aspettative intorno a The House, terzo album in studio di Aaron Maine aka Porches. Le atmosfere synth pop fanno sempre bene all’anima, e Pool riusciva nella felice impresa di mescolarle a un’elettronica lo-fi: canzoni da appartamento, riammodernate per tempi electro-indie. Da Porches volevamo il salto di qualità definitivo, la consacrazione di chi – dopo due anni di ricerca intima – è pronto a trovare la propria voce, il proprio suono. E del resto intorno a The House si andava condensando una certa allure, che si è poi rivelata un’aspettativa che ha mancato l’appuntamento.

La sensazione che viene fuori sin dai primi singoli del nuovo album (Leave The House, Find Me) è di trovarsi su una pista da ballo in solitaria – una festa riuscita male, o una danza appena accennata nella camera di Maine. Resiste quella dose di fragilità da ritiro in se stessi, l’urgenza tutta romantica di crogiolarsi nei propri dèmoni (la fendente brevità di Understanding), lo struggersi agitati nel costruire melodie a pc, la dolce esplosione di un synth-pop fuori tempo e oltre-tempo, ancora più accentuata. Ma davvero non dovevamo immaginare qualcosa di più dalla fantasia di Maine?

The House si costruisce per frames, come è giusto che sia per un album che mantiene una vocazione sperimentale, e così incroci per strada i 50 secondi scarsi di Swimmer, e gli abbondanti 4 minuti di W Longing. Eppure a perderci tra questi frames non riusciamo a lasciarci andare, né a individuare quel filo connettore che dovrebbe andar oltre gli effetti vocali alla voce di Maine.

L’attacco struggente da ballata al piano di Goodbye lascia maturare la sensazione di un disco confuso, in cui davvero è la voce il canto del cigno e lo strumento centrale dell’intero album. Tuttavia non siamo di fronte a stilemi di cantato riconoscibilissimi come quelli di un Bon Iver o di un James Blake, e il talento da ricercatore di Porches non sembra allora bastare a far uscire fuori quel disco immaginato che – però – non si è realizzato. E qui c’è una certa ingenua colpevolezza per essersi lasciati andare all’immaginazione di un suono e di un racconto che andasse oltre gli esperimenti da cameretta di Aaron Maine. Poteva davvero fare di più di quel che ha fatto, o Pool ci aveva lasciato immaginare più di quanto potessimo aspettarci?

In fondo il tradimento – se di tradimento si vuole parlare – non c’è stato. The House resta un disco stratificato sulle sonorità a cui Porches ci aveva già abituati, i suoi frammenti costruiscono poco a poco un album che non si allontana di molto da una musica sintetica ed elettrica emersa da una grigia solitudine interstellare, il suo intimo canto soffuso si mescola perfettamente agli effetti vocali – il risultato ha il ritmo del tempo presente, che si costruisce intorno alle bracciate di un nuotatore che va avanti per la sua bellissima avventura, incorniciato in una cartolina dal sapore naturista.

Davanti a lui uno scoglio: si tratta probabilmente del suo prossimo album, o delle sue performance dal vivo. Adesso bisogna vedere come continuerà a nuotare Aaron, e come sceglierà di rimodellare questo synthpop esotico, intimo e contemporaneo. Forse è tempo di uscire dalla cameretta, e prendere il largo.

 

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