Post-Ears: i Godflesh e una questione di volume

Godflesh live - anaglyph 3D

Non che manchino i precedenti: Beethoven – si narra – ha composto le migliori opere della seconda parte della sua carriera nella completa sordità, Ray Charles suonava il pianoforte anche se era cieco, Peter Longstaff dipinge con i piedi (proprio sul serio con i piedi, non è un modo di dire per denigrare la sua arte) per cause di forza maggiore, visto che è nato senza braccia. Qui alla fine, si tratta solo di scrivere un live report con un fischio costante nelle orecchie: una cosa da niente, se paragonata ai drammatici destini appena elencati. Eppure un po’ mi manca, sentire il suono delle mie dita che battono sulle lettere della tastiera.

E pensare che a un certo punto qualcuno ha pure avuto il coraggio di gridare al fonico: «Alza! Più forte!»

Il Freakout Club sta al riparo del ponte che attraversa la ferrovia, subito fuori i viali e le mura di Bologna. Locale di riferimento per la scena più dura in città, ha le dimensioni di un bilocale con sgabuzzino (sgabuzzino dove, al posto del mocio Vileda, sta un adorabile negozio di vinili DIY) con cucina a vista che serve quasi solo alcolici e una capienza dichiarata di 120 persone, che in casi come questo — quando la band che suona ha un seguito superiore a quello di una squadra di terza categoria, intendo — ridefinisce il concetto di sold out portandolo a confondersi con quello di carpe diem. I pochi fortunati che si sono accaparrati il biglietto stanno stipati come le sardine nella scatola di latta di radioheadiana memoria e in casi come questo — quando la band che suona è nota per farlo a un livello di decibel che va ben oltre i limiti della normativa sull’inquinamento acustico, intendo — la cosa non aiuta. I pochi fortunati che si sono accaparrati il biglietto indossano prevalentemente magliette di gente come Skepticism, Insomnium, Rotten Souls e Lustmord. Qualcuno — più subdolo, nerd e anche un po’ sborone — fa collegamenti tra le righe e sfoggia una t-shirt dei Jesu, qualcun’altro — coraggiosissimo — non ha paura di presentarsi accompagnato da effigi più iconiche e mainstream come la faccia di Johnny Cash. C’è, immancabilmente, uno con la maglia dei Radiohead: sono io. Assente ingiustificato, invece, quello che ogni volta veste Unknown Pleasures: sarà andato a vedere Sfera Ebbasta al Locomotiv. Chissà come c’è rimasto male quando ha trovato tutto chiuso.

Il palco è proporzionato al resto della sala e quindi le spie sono appoggiate sopra le casse, perché per terra non ci sarebbe spazio, soprattutto se quelli che introducono il concerto hanno la pretesa di suonare in quattro e voler usare addirittura una batteria reale, di quelle con tom, cassa, rullante, timpano, charleston, ride, crash e tutto il resto dell’argenteria.

I Godflesh, nella loro carriera in giro per il mondo, non hanno mai detto di no a nessuno, né in termini di location né di gruppi spalla. Nel ‘91 si fecero aprire le danze da dei Nirvana pre-Nevermind all’Astoria di Londra, qualche anno fa si imbarcarono in un mitico tour con i Neurosis e questa volta tocca ai SYKItalian Progressive Extreme Metal Collective (definizione che loro stessi si sono dati) sotto contratto con la Housecore Records di Phil Anselmo — che si presentano senza basso, ma con due chitarre che da sole contano un totale di 18 corde (o forse sono due bassi? o forse due chitarre/basso? insomma, superata una certa soglia riguardo al numero di corde anche i confini tra gli strumenti musicali cominciano a farsi confusi) e — come anticipato — una batteria che pesta con criterio ritmi cadenzati, alternandoli a cambi di tempo che ogni tanto — senza preavviso per i tachicardici presenti in sala — saltano a 240 di metronomo facendo “ciao” con la manina a ipotetici autovelox del bpm. Comunque, riassumendo: sette pezzi intensi in cui la voce potentissima della cantante Dalila quasi riesce a fare capolino oltre il muro di suono imbastito dagli agitati compagni. Quasi.

Justin Broadrick e G.C. Green, arrivano sul palco senza clamori e si posizionano ai due lati, come a ribadire una democratica (ma non democristiana) suddivisione dei ruoli all’interno della band, un governo di larghissime intese con una maggioranza che oscilla equamente da destra a sinistra ma rigorosamente — per dirla con Max Collinisenza centro. In realtà, la luce del monitor di un MacBook ben poco nascosto confessa subito che il terzo elemento del gruppo si chiama Logic Pro X, per suonare chiede 199.99$ una tantum e — manco a dirlo — non sbaglia un colpo. Dopotutto, i benefici di avere una drum machine invece che la sua controparte umana sono auto-esplicativi quando si tratta di andare ad analizzare il gelido suono industriale del duo: gli conferisce una marzialità che nessuno della nostra specie sarebbe capace di replicare e — nel caso specifico — lascia anche un minimo di spazio vitale non dico per muoversi, ma almeno per oscillare e dimenarsi sul posto, come quei pinguini gonfiabili impossibili da metter ko che qualche estate fa infestavano le nostre spiagge.

È storicamente provato come una certa coerenza sia l’ostacolo più difficile da superare per la maggior parte dei musicisti. Le cronache sono piene di leggende a lungo andare affogate nella mediocrità o — nella migliore delle ipotesi — appannate dietro al velo annoiato di una nostalgia che nessun reunion a orologeria potrà mai far tornare attuale. Non è il caso dei Godflesh, che sì riempiono quasi metà setlist (cinque pezzi su undici — la title-track, Parasite, No Body, Mirror Of Finite Light, Be God — in pratica la prima metà del disco suonata tutta di seguito durante la parte centrale della scaletta) dall’ultimo Post Self (anche giustamente direi, visto che è stato votato quasi all’unanimità come uno degli album metal più interessanti dello scorso anno) però poi pescano quasi a caso da un repertorio che — grazie alla succitata coerenza, appunto — permette loro di alternare nuovo e vecchio materiale senza generare la minima frustrazione tra il pubblico presente.

Pubblico che — quei pochi fortunati che si sono accaparrati il biglietto, avete presente? — è, con mia sincera sorpresa, un po’ svizzero (non che sia mai stato a un concerto in Svizzera, ma me li immagino così): segue con attenzione ma senza eccessivo trasporto abbandonandosi solo a tratti a qualche sporadico episodio di headbanging di livello professionale (contro ogni pronostico, il tizio con la maglietta di Johnny Cash), ma per lo più rimanendo a braccia conserte, quando non dispensa applausi precisi seppur sempre misurati e tantissimo entusiasmo, tenuto però, in maniera prudente, dentro. Nessuno accenna mai nemmeno un abbozzo di pogo e questo è, obiettivamente, strano. Immagino che i canoni del genere non lo vietino (è vero che non siamo a vedere i Punkreas, ma nemmeno Astor Piazzolla) e anche l’età media in sala è indubbiamente altina, ma nessuno credo ancora veda la sagoma dell’osteoporosi dietro l’angolo. Eppure.

A movimentare la serata ci pensa in ogni caso una delle due casse dell’impianto di amplificazione, che va e viene a piacimento — dispensando richieste di aiuto in forma elettrostatica che potrebbero tranquillamente essere elementi della partitura — ma per fortuna lo fa a sync, così che il tutto sembra il risultato del lavoro di un abile DJ che ci sta scratchando sopra — come nei begli anni del nu-metal, ma fuori tempo massimo — piuttosto che un effettivo problema tecnico.

Sessanta minuti spaccati, filati e senza né soste (il buon Logic Pro X non perdona, in questo senso) né una parola tra le canzoni, anche fosse solo un “grazie”: se ne vanno sudati fradici, evitando quasi di salutare e dando per scontato che non ci sarà nessun encore (non fanno parte dell’estetica dei Godflesh, e infatti non si registrano proteste, mormorii o lamentele che si azzardano a richiederli), solo Broadrick fa un mezzo inchino. O almeno, io ho voluto intenderlo come un inchino, ma forse era solo un modo goffo di tentare di togliersi la tracolla della chitarra.

Faccio due passi indietro barcollando e — come per magia (o forse dovrei dire come nella famosa casa in 40 metri quadri dell’IKEA) — sono già fuori dall’inferno. L’aria fresca di questa primavera storta dà un sollievo superficiale alla temperatura corporea da troppo tempo ormai sopra i livelli di guardia, ma può fare ben poco per sbilanciare l’equilibrato rapporto tra i pro e i contro di una serata che già in partenza si preannunciava foriera di intensità brutale e danni che al momento definirei irreversibili. Il mio personale Post Self infatti (chiamiamolo il post-myself) ha i contorni ovattati di un preoccupante principio di acufene, che comunque non mi ha impedito di godere appieno di una performance scarna (ciò nondimeno a tratti imponente) e costantemente sparata in faccia senza se e senza ma, come un pugno dal quale non fai in tempo a scansarti, se non dopo che l’hai preso dritto sul grugno, nei panni di un pugile dilettante costantemente in ritardo sull’avversario. Il loro invece — quello della band inglese — sembra veleggiare sicuro, indifferente a tutto e a tutti, verso un futuro non dico roseo (il termine mi parrebbe quasi provocatorio, per una band che qualcuno ha definito “i padri della siderurgia pesante”, qualunque cosa significhi) ma quantomeno solido e ancora promettente: la coppia di Birmingham è viva e vegeta, non ha esaurito le cose da dire e sembra tutto meno che al capolinea.

Almeno finché i due non decideranno — così, all’improvviso, da un giorno all’altro — di smettere di parlarsi per sette o otto anni e chi s’è visto s’è visto. Non è fantascienza. È già successo nel 2001 e rischiava di non finire bene.

Mentre guardo con invidia quelli che, uscendo, si tolgono dei salvifici tappi dalle orecchie, penso che anche loro — i miei previdenti coinquilini per un’ora — nonostante l’apparente freddezza, non perdonerebbe a Justin e George un altro scherzo del genere. Tuttavia, mi sento comunque di rassicurarli, se ce ne fosse bisogno: non credo che il rischio sia all’orizzonte.

A modo suo sarebbe un bis, no?
E l’abbiamo già detto: i bis non rientrano nell’estetica dei Godflesh.

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