Primavera Sound 2013

Più delle affusolate guglie della Sagrada Familia, più dell’arte modernista, della Rambla e delle stravaganti costruzioni di Antoni Gaudì, la pergola fotovoltaica del Parc Del Forum rischia di essere per me, da ormai tre anni a questa parte, il simbolo di Barcellona.

Della capitale catalana ricordo davvero poco in verità, del resto non credo di esserci mai stato tanto affezionato come negli ultimi tempi. Tra me e Barcellona c’è un po’ il ricordo di un amore antico, di cui porti con te le sensazioni, senza riuscire a mettere esattamente a fuoco il volto dell’amata. Come dicevo, o comunque provavo a dire, tentando entrate ad effetto, questo è il terzo anno che mi reco in pellegrinaggio a quel tempio europeo della musica indipendente che è il Primavera Sound e, sebbene stia diventando ormai una consuetudine, l’emozione è sempre grandissima. E’ sempre un po’ come fosse la prima volta.

Inutile sprecare parole sul cast e sui buoni propositi di vedere millemila gruppi che come sempre si riducono drasticamente quando si fa i conti con la realtà e il mancato ma tanto agognato (anche per quest’anno, ahimè) dono dell’ubiquità.

Sul Primavera Sound se ne dicono di tutti i colori e mai come quest’anno lo si è fatto in tutte le salse, colpa del potentissimo hype generato dall’annuncio della scorsa estate che confermava i rumors con la partecipazione dei Blur al festivalone spagnolo. Tutta questa febbricitante attesa ha trasformato il Primavera in un evento molto più di moda degli anni scorsi, che ha visto il tutto esaurito in pochissimo tempo con 170 mila biglietti venduti e un esubero di presenze che, in qualche caso, si faceva purtroppo sentire.  Ma andiamo con ordine e vediamo a freddo com’è andata, tiriamo due somme, al di là delle instagrammate e delle foto pubblicate real time, cerchiamo di capire chi è stato promosso, chi bocciato e chi rimandato a settembre!

Si inizia direttamente giovedì per me, niente secret show del mercoledì sera, che i biglietti sono andati esauriti in tipo 20 minuti e comunque alla fine erano solo le Breeders e pare non sia nemmeno stato sto granchè, poco male.

Giorno 1

Wild Nothing: un pomeriggio all’insegna della leggerezza e dell’etereità. Un un attimo l’aria si rinfresca, la brezza del mare diventa più piacevole e le labbra si schiudono in un sorriso semplice e naturale. E’ un ottimo modo per iniziare il festival, un perfetto aperitivo, sulle note di Paradise e Counting Days, lasciandosi cullare da arpeggi circolari e voci trasognanti. Un bel live anche se alla lunga finiscono per stancare un po’.

Savages: sono l’hype del momento, perché il post-punk è stato fatto e rifatto migliaia di volte e probabilmente sempre allo stesso modo. Le Savages, però, hanno carattere, si muovono bene  sul palco e sugli strumenti. È come se Siouxsie si fosse tagliata i capelli come Ian Curtis e avesse preso ad esibirsi con la grinta della prima e le movenze del secondo. Le ragazze dimostrano maturità musicale anche quando hanno un problema alla chitarra, continueranno a suonare per minuti lo stesso riff gonfio di basso e batteria finchè la compagna non si riprenderà. She will spacca di brutto, come tutto il resto. Energia e rock’n’roll.

Tame Impala: psichedelia a go-go. Hanno i capelli come dei freakettoni, si muonono come dei freakettoni, suonano come dei freakettoni. Tra visual e riffoni di chitarra, fanno un live tiratissimo e intenso, portato avanti da chitarre acide e strozzate e atmosfere 70s. Peccato che la posizione laterale non mi consenta di godere appieno dello spettacolo. Da Elephant a Mind Mischief, passando per Feels We Only Go Backwards, puoi tranquillamente farti un acido senza calartelo. Notevole.

Dinosaur Jr.: la band di J Mascis e Lou Barlow ad un festival è un po’ come i coffee shop ad Amsterdam. Se ci vai in vacanza non puoi certo non fartici un giro, anche solo così, per respirarti un paio di soli, ascoltare una The Lung volante e fare headbanging con Feel The Pain. Scaletta piena di classiconi, peccato che il Primavera Stage non valorizzi il suono della storica band. Ce ne facciamo una ragione.

Deerhunter: ebbene sì, io al posto dei The Postal Service, sono andato da Bradford Cox, che per l’occasione si è vestito da donna ed aveva perfino una certa classe. Che dire? I primi brividi del festival: l’apertura con Agoraphobia, i suoni garage ed acidissimi di Monomania, un pubblico in delirio e poi le canzoni…che cazzo di canzoni che hanno i Deerhunter! The missing si chiama commozione, Don’t Cry e Desire Lines  sono il porto sicuro dove rifugiarsi. C’è la melanconia mista alla rabbia, c’è la violenza che si sporca di amore, c’è quell’atmosfera trasognante che sotto sotto vuole farti male. C’è che questo è stato uno dei più bei live del festival, c’è che il Ray-Ban è il palco più figo, per scenografia ed acustica, c’è che Cox è un fottuto genio. E basta.

Grizzly Bear: un saluto rapido all’orso Grizzly non si poteva certo non farlo. Li guardo da lontano, sempre impeccabili nelle loro esecuzioni, così tanto da apparire a tratti freddi, distaccati. Eppure i Grizzly Bear hanno quella classe che contraddistingue i grandi, suonano come dei classici pur essendo modernissimi e questo, tra i loro giri di accordi e i loro raffinati arrangiamenti, si carpisce sempre di più.

Phoenix: la vera bomba della prima giornata (ma probabilmente di tutto il festival) arriva da Parigi…chi l’avrebbe mai detto? Andatelo a spiegare ai cugini inglesi che il live dei francesi è stato meglio…vabbè questo lo vediamo poi, non è troppo il caso di anticipare. I Phoenix mettono in scena un concerto fresco e vivace, in grado di sorprendere. Stupisce il loro modo unico di mischiare il pop più scanzonato con le componenti emotive più sensibili. La loro musica fa ballare, ma fa anche commuovere, nelle piccole venature amare delle loro melodie, per esempio quando decidono che Countdown in fin dei conti è perfetta da cantare voce e chitarra, praticamente in unplugged e tu la ascolti e ti viene subito un nodo in gola. Belle le scenografie, epica la performance. Con i brani di Wolfgang Amadeus Phoenix a farla da padrone. I Phoenix, diciamocelo, hanno un batterista della madonna ed  inaugurano con il loro live la consolidata prassi che vedrà tutti gli headliner esibirsi in stage diving più o meno composti durante le loro esibizioni. Fatto sta che la band parigina ha davvero fatto il botto e deve essersene accorto anche J Mascis che a sorpresa sale sul palco e fa un assolo nella parte finale dello show, così…tanto per attribuire una stellina in più alla valutazione di questo concerto!

Animal Collective: Deve esserci una specie di maledizione che lega me, gli Animal Collective e il Primavera Sound. Perché la prima volta che ho visto la band americana esibirsi al festival spagnolo, non capii proprio dove volesse andare a parare la loro esibizione…fatto sta che anche questa volta non è stata proprio epocale. Nonostante li ami, e proprio perché li amo, non posso non dire che la performance dei nostri è stata piuttosto sottotono. Di bei momenti ne hanno comunque regalati, però, con i brani di Fall Be Kind, che bene si adattano al loro modo particolare e scomposto di eseguire le loro composizioni dal vivo.

John Talabot: l’elettronica di Talabot è il miglior modo per riprendere fiato dopo un’intensa giornata di festival, me lo godo dagli spalti del Ray Ban, con il meraviglioso spettacolo della folla sotto al palco. Il primo saluto al Parc all’alba.

Giorno 2

Andare un po’ fuori di testa perché non si è trovato i biglietti per l’Auditori, per assistere al concerto di Daniel Johnston  renderà, per il sottoscritto, la seconda giornata di festival un po’ sottotono. Tanto più quando vengo a scoprire che all’Auditori si poteva entrare anche senza l’agognato biglietto di 2 euro. Lancio una bestemmia, tanto ormai sono già in cammino per l’Heineken e si sa che all’ora di punta l’Heineken diventa irraggiungibile, tanto vale affrettarsi e carpire il buono che questo giorno ha da offrire

Django Django: fanno salire la temperatura di quella che verrà ricordata negli annali come la più fredda giornare di Primavera mai vista. Con il vento ad entrarti nelle ossa, non sembra maggio al Parc, ma dal palco viene il vento caldo dell’Africa, i ritmi tribali, le danze e la voglia di stare fermo e gli intoppi causati dai concerti non visti nel pomeriggio si superano facilmente. Che bella scoperta i Django Django, freschi e nuovi. Originali, è proprio il caso di dirlo!

Shellac: Siamo seri, è la terza volta che vengo al PS e non ho mai visto la band di Albini, che poi è un po’ come andare per tre volte a Roma e non vedere il Colosseo…si insomma quelle robe lì, suonano all’ATP e io ci sono. Quello che non c’è invece è il suono, debole come non ce lo saremmo mai aspettati! Maledetto vento che ti porti via i dB e non mi fai fracassare le orecchie nel frastuono di My Black Ass. Niente da fare, il concerto non mi prende. Si sente troppo male, tanto vale attendere i Jesus and Mary Chain al vicino Heineken.

The Jesus And Mary Chain: Per tutta l’attesa pre-concerto ho pensato: “l’ho sentita in tremila djset, pubblicata un centinaio di volte su Facebook, finalmente posso ascoltare Just Like Honey dal vivo!”. E tant’è: un concerto onesto, privo di grandi picchi, ma anche di sbavature, ricco di brani storici. Mi aspettavo un suono diverso dai J&MC, meno corposo e più affilato, ma evidentemente mi sbagliavo. Mi hanno ricordato un po’ l’esibizione dei P.I.L. di due anni fa al Paimavera, anche se quella era assai più bella. Poi la sorpresa: quella tanto agognata canzone cantata in duetto con nientepocodimenoche Bilinda Butcher dei My Bloody Valentine. Un’emozione ad occhi chiusi non può non regalartela un momento come questo.

Blur: Se il venerdì risulterà il giorno più insostenibilmente affollato del festival è tutta colpa loro. Diciamocelo, i Blur hanno portato un mucchio di loro fan al Primavera, gente venuta apposta per loro che, terminata la loro performance, ha alzato i tacchi e se n’è andata. Quando avevo sedici anni e si portava il brit-pop e io guardavo MTV come i mocciosi della mia età non avrei mai immaginato che un giorno mi sarei messo in fila ad un festival per vedere i Blur. Eppure al cuor non si comanda e non sempre le adolescenze si rinnegano. Gli inglesi semimano il panico, con uno show assai prevedibile, ma di ottima qualità. La scaletta da cantare, fatta di grandissime canzoni, così diverse tra loro, da Girls and Boys a Song 2, passando per Tender e The Universal. Sai già che sarà bello un live dei Blur e quindi non te ne stupisci. Perché ti piace, solo che alla fine manca qualcosa perché è come un film che bene o male sai già come va a finire, ma in fin dei conti vederlo ti è davvero piaciuto. Damon Albarn era in forma sì, e sì, anche lui si è lanciato sulla folla, in fondo anche questo c’era da aspettarselo!

The Knife: Ovvero l’evoluzione del balletto nell’epoca contemporanea. Diciamo la verità: lo spettacolo è bello, le coreografie, le danze e la musica pure. Peccato che a tratti appaia tutto così finto, chiamarlo dj-set forse ci avrebbe messo di più l’anima in pace, ma in fin dei conti ci è piaciuto anche così. Tanto stasera qui eravamo tutti per i Blur. Chissenefrega se i Knife non suonano e spesso non stanno nemmeno sul palco, è un dettaglio che non abbiamo proprio notato.

Giorno 3

Melody’s Echo Chamber: Sarebbe bello starsene al Pitchfork tutto il giorno a vedersi passare davanti la Best New Music e cose così. Sarebbe bello ma è impossibile, visto i nomoni che ogni anno tira fuori il festival, eppure Melody’s Echo Chamber mi è piaciuta proprio assai, è uno di quei live pomeridiani che ti scalda il cuore e ti mette di buon umore con il mondo. Accompagnata dal venticello atlantico, non fa proprio niente male.

Deerhunter (bis): si lo so che la sindrome ossessivo/compulsiva è una brutta malattia, ma i Band Of Horses non sono più venuti (e non è che mi sia strappato i capelli per questo) e visto che risuonavano i novelli Shellac del Primavera, non potevo certo non ascoltarmi un alto paio di pezzi, solo un altro paio dai. Vi esonererò dai commenti: sempre dei grandissimi, ma molto meglio la prima sera!

Dead Can Dance: I Dead Can Dance sono i Dead Can Dance. Non sono il mio genere, non fino in fondo. Ma sono intensi ed emozionanti e questo, ad una band storica e di questo spessore, va riconosciuto. Come fai a non curiosare nel loro live set? Devi per forza, così mi sono fatto avanti ed ho ascoltato in silenzio. E per il tempo che ci sono stato quello che ho visto mi ha emozionato. Soprattutto quando in chiusura tirano fuori Song To The Siren di Tim Buckley.

Thee Oh Sees: Non c’è nulla di meglio del loro rockabilly graffiante per aspettare che sul palco si profili Sua Maestà il Re Inchiostro. Un live tirato e divertente, che coinvolge e fa ballare.  

Nick Cave and The Bad Seeds: Ce lo aspettavamo tutti a salire sul palco mezzo ingessato e restare lì immobile al microfono a suonare i brani del nuovo album, con la consueta eleganza e savoir faire. Ebbene l’eleganza c’è stata e come, ma era quella del diavolo quando fa gli onori di casa dell’inferno. Un live mozzafiato, che fa mangiare polvere a tutti i gruppi che si sono esibiti al Primavera. Cave si agita sul palco, sbotta, urla, sussurra, declama e dona lezioni di stile a tutti. Questo è il rock’n’roll baby e se non ti piace, forse fai meglio a girare i tacchi da un’altra parte. La scaletta mette insieme dei classiconi: da Tupelo a The Weeping Song, fino a un’arrabbiatissima From Her To Eternity e ad una magistrale ed emozionante Stagger Lee eseguita in mezzo alla folla, con un Warren Ellis da ovazione multipla. Per più di un’ora non sei tu a decidere il battito del tuo cuore. Per quell’ora è Nick Cave che lo decide e tu devi solo resistere.

Liars: Fanno quei concerti fighissimi i Liars: pieni di bassi profondi e di carisma, ci si lascia trascinare, si balla e pare che non ne hai mai abbastanza, con il leader che sul palco si sbatte mentre si alternano brani dell’ultimo WIXIW e vecchi successi. La band di New York City è in forma e lo dimostra con il suo show tiratissimo ed ispirato. Uno dei live più coinvolgenti di quest’anno.

Crystal Castles: mi avevano detto che dal vivo non erano poi sto granchè…devo smettere di stare ad ascoltare quello che dice la gente. I Crystal Castles  dal vivo fanno i buchi a terra e mentre Ethan se ne sta lì tutto incappucciato e ricurvo sulle macchine, Alice crea lo spettacolo vero e proprio: sembra indemoniata nei suoi abiti sexy e non fa altro che urlare, saltare e dimenarsi, sul palco fin sopra alla batteria e poi sul pubblico su cui si lancia  letteralmente, in uno stage diving epico e catartico. Da Plague e Baptism, fino a Crimewave, il loro set è un’autentica goduria.

My Bloody Valentine: i MBV suonano canzoncine tristi a volumi disumani. La senti da tipo 500 metri la pressione sonora che creano sul palco, quello sferragliare di chitarre che si fa più potente man mano che ti avvicini al palco e ti immerge, come se stessi andando in apnea. Ma se centinaia di rose messe insieme probabilmente non emettono un profumo, allora è molto probabile che centinaia di distorsioni stratificate e violente non emettano rumore, ma una dolce melodia. I My Bloody Valentine lo sanno, e te lo spiegano con le loro canzoni. Impossibile distinguere la voce (soprattutto quella maschile), l’equalizzazione non la prevede troppo e le parole di You Made Me Realize  te le devi cantare in testa se proprio ci tieni. Il muro di suono dei MBV è una delle cose che mi rimarrà più in testa di questa edizione del festival, non solo perchè mi ha letteralmente stordito, ma perchè è stato come fare un viaggio nella dolce poesia del rumore, e mi è piaciuto.

Hot Chip: Ci stanno proprio bene loro alle 4 di notte, nella giornata di chiusura. Ci stanno bene perchè sono allegri, suonano un funky sbieco e figo e ti tengono svegli. E poi In Our Heads è un gran disco, vuoi mettere ascoltarlo dal vivo? Si balla, si balla e si sta bene, come dovrebbe sempre essere. Un degno finale di una giornata nettamente esaltante.

Conclusioni:

L’edizione 2013 del Primavera è stata sicuramente la più pubblicizzata, frequentata e instagrammata della storia. E’ mancata un po’ la qualità rispetto agli anni precedenti, hanno vinto un po’ di più le ruote panoramiche e l’hype, ma un festival vive anche di questo. E un po’ di sana mondanità non fa male nemmeno ai pellegrini dell’indie rock del nuovo millennio. L’anno prossimo al festival ci sarà la reunion dei Neutral Milk Hotel (l’annuncio è stato dato in diretta a palchi unificati) e l’unica cosa certa è che mi sto già ripassando In The Aeroplane Over The Sea, anche se forse non ce n’è affatto bisogno.

Arrivederci all’anno prossimo, Barcellona!

Si ringrazia il cellulare di Ila Sonica  per i video gentilmente concessi.

Il mio lo ringraziamo per le foto qua sotto, ma anche no.

 


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