Primavera Sound 2016 | La città che non dorme mai

Parole Giovanna Taverni, foto Seppino Di Trana

Non dovevamo certo andare fino a Barcellona a macinare chilometri per capire cose che sapevamo già dentro di noi, per esempio che Pj Harvey è una musicista straordinariamente raffinata, che i Radiohead smuovono una gran massa di pubblico, e che questo festival è una garanzia – il più bello di tutta Europa, una vera e propria cittadina dentro la città. Bastava percorrere una strada più breve perché tutto fosse chiaro. Mancavo da cinque anni al Parc del Fòrum del Primavera Sound, eppure non avevo dimenticato granché, anche se qualcosa è cambiato: l’organizzazione è cresciuta, ci sono delle aree riservate ai vip (persino sotto il palco), il palco San Miguel ora si chiama Primavera e non c’è neanche più la birra San Miguel. La birra sponsor del festival ora è la Heineken – magari l’avete provata qualche volta -, e il grande palco (quello più “prestigioso” e distante) è dedicato a questa birra bionda, slavata e decisamente olandese. Alla conferenza stampa di chiusura del festival vengono presentati con precisione i numeri che il Primavera Sound riesce a muovere: parliamo di oltre 200.000 ingressi, e di un sold out che non è tutto merito dei Radiohead anche quando potrebbe sembrare. Il festival più grande e bello di tutta Europa è ambizioso, e questa ambizione vuol mantenerla viva, semmai alimentarla, continuare a crescere. Per il prossimo anno punta diritto a un nuovo sold out, e non sarà una chimera con questi numeri. La sfida è quella di continuare a fare proposta, coinvolgere le persone in un’immersione nella cultura catalana di Barcellona e nella buona musica per qualche giorno. Il live annunciato a sorpresa degli LCD Soundsystem al Barts del martedì aveva già lasciato presagire che gli organizzatori del Primavera Sound non si accontentano mai e si divertono a stupire rimescolando le carte. Qualunque cosa stiano preparando per il prossimo anno ci fidiamo.

La metro è in sciopero, but we have the music

Al mercoledì e al giovedì sembra stia calando su Barcellona una strana ansia da sciopero della metropolitana: in realtà lo stop si concentra solo in alcuni orari fissi e basta evitare di usare la metro in quelle fasce orarie (che pure assicurano qualche corsa in mezzo). Al concerto di apertura al Fòrum del mercoledì sera suonano Goat e Suede, parte del pubblico resta a sentire entrambi i live per evitare quelle fasce orarie, altri si godono più che volentieri la doppietta. I Goat dal vivo sono fortissimi, ci offrono subito un live dinamico e carico, e così la freschezza dei loro pezzi sembra proprio un bel modo di inaugurare il festival. Subito dopo è la volta dei Suede, che salgono sul palco del Primavera sinceramente acclamati da un pubblico che ha voglia di cantare i pezzi classici della band inglese. Brett Anderson si sbatte un sacco sul palco, quasi diventando la parodia di se stesso, suda e si muove come una rockstar (wannabe) che arringa sulla folla, prova a creare momenti di pura suspence arrampicandosi sul palco, gira il microfono contro il pubblico in cerca di qualcuno che canti i suoi classici, e fa la camicia a pezzi pur di muovere un’emozione. A onor del vero molti cantano, c’è chi è sinceramente colpito da Anderson, io mi allungo a fare un giro ma è quasi tutto chiuso. Do uno sguardo alla grande scala che scende verso quello che nel 2011 era il palco Pitchfork, e oggi si è sdoppiato in due palchi attigui: Adidas original e Pitchfork. Sono i palchi di proposta del festival. Ai tempi c’era James Blake a gorgheggiare il suo album d’esordio, sotto la brezza del vento che veniva dal mare – oggi occuperebbe l’Heineken probabilmente.

Esterno Apolo, serata di apertura del mercoledì @ Seppino Di Trana

Questione di sound: Deerhunter, Beach House

In effetti quello che colpisce sempre è come le band che pochi anni fa erano piccole finiscano per diventare improvvisamente grandi nomi, se va bene addirittura headliner, o quasi. Come ci si sposti nel giro di pochi anni (e al massimo un paio di album) da un palco all’altro, da quello più piccolino a quello più grande. Non è un movimento a senso unico, c’è sempre il rischio di ricascare giù che aleggia su questi gruppi. Qualcuno (cfr. il fotografo) mi racconta il live dei Deerhunter del 2008, parliamo di Bradford Cox ai tempi di Microcastle, quando non aveva ancora neanche firmato per la 4AD ed era un ragazzino. Io li avevo trovati nel 2011 a poco tempo dall’uscita di un disco che amo, Halcyon Digest, una delle piccole rivoluzioni sonore del decennio. Adesso la band di Cox è fresca dell’ultimo album Fading Frontier, ed è sempre una bella certezza lasciarsi trascinare dal loro sound: sono poche le band che sanno trasportarti in un altro mondo grazie a un suono preciso, i Deerhunter sanno farlo, ci riescono in modo secco, e ti portano in giro coi loro vecchi pezzi, da Agoraphobia a Helicopter fino a quelli più recenti. Una certezza ascoltarli, con Cox che indossa un cappello alla Indiana Jones sul palco, e ci culla verso l’altrove. Andiamo verso una direzione onirica. Questa capacità di smuovere un’atmosfera la riconosciamo anche nei Beach House, che hanno suonato al venerdì notte sull’Heineken stage, avvolti da luci che volevano richiamare quelle di un cielo stellato. Come per i Deerhunter anche qui parliamo di una certa collezione di suoni che somigliano a un marchio di fabbrica del gruppo, toccano una certa corda e basta, e qualunque sia la corda in questione la riconoscerete alla prima nota. L’attacco è affidato a un pezzo del nuovo album Depression Cherry, PPP, e subito quella corda si attiva, suona a distanza di milioni di anni e batte il ritmo dell’altrove. Se la diffidenza per i due nuovi album evapora subito dal vivo è proprio merito della magia che sa essere un suono: Wishes e Myth provano a cercare il nome per definire di cosa stiamo parlando.

Credo esista una simbologia oscura dei suoni, alcuni sono legati tra loro, basta affondarci dentro per scoprirne la trama. Forse anche questo ci piace del Primavera Sound, seguire le briciole di pane a terra della traccia che lega quei suoni l’uno all’altro, afferrarne la trama completa, decifrare il risultato.

Pj Harvey la regina, e le altre donne

Forse la trama si scioglie con il live di Pj Harvey stavolta, magnifica come una dea circondata da musicisti incredibili che le stanno dietro come in un baccanale o un rito, ma arriviamoci con più calma. Mi sembra che quest’anno siano state molte le donne che sono riuscite a stregare il pubblico dal palco. Si parte con Elena Tonra dei Daughter al giovedì, che in un’atmosfera incantevole di lungo tramonto inaugura il live subito forte con uno dei pezzi più belli del nuovo album, How. Sappiamo che anche i Daughter hanno quella cosa lì, quella del sound magico, e per un’ora intera siamo letteralmente altrove, da un pezzo a un altro che significa viaggiare anche da un anno all’altro, da Youth a Fossa. Alla stessa ora il giorno dopo sul palco ci sono invece le Savages, e qui dobbiamo parlare di vere macchine da guerra e da palco. Non bastasse il look impietoso e perfetto, Jhenny Beth infiamma letteralmente il pubblico con una performance da guerrigliera, tirandosi dietro tutte le altre, e regalandoci uno dei live più selvaggi del festival. Stage diving, urla, incitamenti al pubblico, e pezzi che esplodono: il mix è così forte che non c’è tempo per l’indifferenza. E così il nuovo album, Adore Life, si lascia apprezzare, scivola via giù nello stomaco come un deciso cicchetto di rum liscio, mentre la frontwoman non si ferma mai, e l’intensità dei 50 minuti lascia la voglia di continuare a sentirle. Però poco dopo toccherà ai Radiohead, e per anzianità non si può rubar scena proprio a loro.

Stage diving di Jehnny Beth, Savages @ Seppino Di Trana

Ma andiamo a Polly Jean. Cosa ha avuto davvero in più il suo live? Cosa ha spinto tutti a restare di stucco anche se non ha mai preso in mano la chitarra e si è votata al sassofono? Ho già visto Pj Harvey in passato, ma questa volta mi ha letteralmente spiazzato e stravolto il cuore. Probabilmente nessuno di noi era davvero preparato a un live così perfetto, e quando parti con aspettative che sono solamente alte di fronte alla bellezza non puoi che annichilirti. L’entrata in scena di Pj Harvey sul palco ha avuto già una sua epica, come una vecchia divinità greca avvolta in una veste (che però non era bianca – ma ovviamente nera), è stata accompagnata da tamburi battenti che hanno annunciato in pompa magna il suo ingresso. The Hope Six Demolition Project è un album già corposo da ascoltare su disco, ma dal vivo diventa impietoso. Tra i musicisti che accompagnano sul palco Polly oltre alle certezze John Parish e Mick Harvey, ci sono anche due vecchie conoscenze italiane: Enrico Gabrielli (Calibro 35) e Alessandro Stefana (Guano Padano). Il live riesce a incantare proprio per il preciso incastro di suoni, e per l’indiscussa capacità di Polly Jean di interpretare i pezzi. Lo fa proprio come una dea che ci sta narrando la storia del mondo: si mette a centro palco e butta fuori tutto il carisma. I pezzi del nuovo disco vengono fuori benissimo – già in fase registrazione ci avevano colpito, ma dal vivo riescono a rendere, anzi esiste uno strato in più che riesce a farli risplendere. Persino Let England Shake, l’album precedente, riesce a guadagnare qualcosa. È come se fosse un live studiato alla perfezione, che non perde nulla in quanto a improvvisazione. Polly ci sa fare. E ci regala anche vecchi pezzi che sanno di nostalgia come Down by the water e To bring you my love. Immensi.

Stavolta la ragazza ha messo via la chitarra per farsi donna nel sassofono. Ma siamo abituati ai cambi repentini di umore di Pj, e ci piacciono. Le concediamo la libertà di far quel che vuole. Alla fine del live la sensazione – comune – è che avrebbe potuto continuare ancora a suonare, e che qualunque cosa da adesso risulterà nettamente inferiore. Purtroppo è vero, è anche per questo se una band che ho amato come i Parquet Courts dal vivo poi mi risulta scialba.

La folla da grande evento: LCD, Radiohead

Sì, in qualche momento un traffico di belle speranze affollava i palchi, in particolare il fenomeno si è avvertito forte su LCD Soundsystem e Radiohead. Ma c’era da aspettarselo per entrambi i gruppi. Gli LCD stavano celebrando la loro reunion, i Radiohead sono i Radiohead, e anche non avessero presentato il nuovo album non sarebbe cambiato nulla sotto il palco. Per gli LCD Soundsystem nel pubblico c’è grande fibrillazione, una calca di persone si muove da uno spazio all’altro provando ad avanzare di posto, sgomita, si butta deciso, punta in avanti, combatte. Nessun’arma di difesa riesce a trattenerli davvero, sembra di stare in mezzo a un traffico schizoide che vuole solo cantare Daft Punk is Playing in my House. James Murphy arriva sul palco carico, e tutti si caricano improvvisamente: del resto siamo qui anche per vedere loro, celebrare il tempo che se ne va e ritorna, è un momento di quelli importanti e tenere nel cassetto. A onor del vero i volumi – soprattutto all’inizio – sembrano bassi (ma capiterà spesso all’Heineken stage quest’anno), e così nonostante il sound sia quello degli LCD diventa difficile entrare completamente dentro i pezzi e i loro arrangiamenti live. In una sola tornata però Murphy & co. vanno giù decisi con Us v Them, Daft Punk, I Can Change, trascinando l’intero pubblico a cantare e ballare. Sul finale una New York, I love you but you’re bringing me down è un pezzo perfetto per caricarsi in modalità crooner prima della chiusura gloriosa di Dance Yrself Clean e All my friends.

Radiohead, Heineken stage @ Seppino Di Trana

L’altro grande evento del Primavera – forse dovremmo parlare di Evento – sono i Radiohead. Nell’ultimo tour la band inglese sta portando in giro una scaletta che spazia in tutto il repertorio dei loro dischi, e così sembra facile immaginare che anche stavolta chiuderanno con un pezzo come Creep dopo averlo già fatto a Parigi (e così succede, a sorpresa e come coda di un encore). Il live inizia con i nuovi pezzi di Yorke e co., Burn the witch e Daydreaming, ma per due ore i Radiohead possono fare quello che vogliono, e così tirano fuori la loro storia, da Karma Police a Idioteque, da Paranoid Android alla più recente Weird Fishes. Il pubblico è ovviamente rapito. Quando arrivo al palco Heineken, dove suonano i Radiohead (per la prima parte mi trovavo al live dei Dinosaur Jr.), mi accorgo che in realtà la calca per loro sembra stranamente inferiore a quella che si era creata per gli LCD. Ma probabilmente è solo la natura del pubblico a essere diversa: l’ascoltatore dei Radiohead è meditativo, per la maggior parte del tempo resta impassibile – in ascolto e contemplazione.

(Premesso che un ascoltatore dei Radiohead possa essere anche un ascoltatore degli LCD e contenere moltitudini come Walt Withman)

Ma il vero godimento è Brian Wilson

Per tutto il pomeriggio del sabato non ho fatto altro che pensare, oggi è la giornata in cui sentirò God Only Knows dal vivo. Brian Wilson performing Pet Sounds è uno di quegli eventi che non ti ricapiteranno più, un po’ come venire a sapere che John Lennon non è mai morto e che si esibirà per un’unica data con McCartney sull’isola di Wright per un live che ripercorre tutti i grandi successi dei Beatles. Quando sale sul palco Wilson sembra chiaro che ha 73 anni, e allora vengono in mente le più recenti performance di Lou Reed o Bob Dylan così diverse da come le aspettavi, e fai un sospiro, ma in fondo lo sapevi già che Brian Wilson è in là con gli anni e sei lì solo per onorare la storia e farla tua per un attimo. Qualcuno diceva, we can be hero just for one day. Non so se siamo proprio eroi qui a un festival, non abbattiamo nessun muro, nemmeno quello del suono, ma sentire Pet Sounds dal vivo è emozionante. Una mente che è stata capace di arrangiare i suoni alla perfezione, ed ora è lì davanti a te come un magnifico direttore d’orchestra di vecchia scuola, a continuare con la sua grande ossessione, la musica. Condivido con McCartney un sincero e profondo amore per la melodia di God Only Knows. I Beatles sono stati puri geni melodici, basti pensare a Hey Jude, Here There and Everywhere, ma anche a Something di Harrison. I Beatles hanno probabilmente anche ispirato Wilson nella ricerca di melodie più raffinate per i suoi Beach Boys. Davanti a canzoni come Wouldn’t It Be Nice o You Still Believe Me (pezzi con cui Wilson e il suo team di musicisti aprono il concerto) l’unica cosa che resta da fare è inchinarsi e respirare quei suoni. Il fatto che Pj Harvey ci abbia colpito tanto in questo ultimo tour probabilmente ha qualcosa a che fare anche con Brian Wilson, ha qualcosa a che fare con gli arrangiamenti, la maniacalità di questi arrangiamenti e un team di musicisti fuori dall’ordinario, i suoni perfettamente incastrati, anche quando si tratta di un solo piccolo scampanellio. Parliamo di musicisti veri e profondi, e anche se mantengo una forte vena lo-fi devo ammettere che pezzi perfetti come Good Vibrations sono estremamente complessi, anche quando vengono fuori così semplici: ed è questo forse il segreto del piacere, godere in modo estremamente semplice di qualcosa di molto complesso. Good Vibrations è praticamente il pezzo che ha significato la fine dei Beach Boys, simbolicamente Wilson lo mette in coda dopo tutto Pet Sounds, e da qui in poi ci porta a viaggiare anche tra i vecchi successi pop della band californiana, che fanno esplodere il pubblico in danze e canti. I Get Around, Surfin’ U.S.A., Fun, Fun, Fun: una splendida perdizione sonora verso gli anni Sessanta ci rapisce tutti al Primavera Sound.

Pubblico Primavera Sound @ Seppino Di Trana

Punk attitude: Car Seat Headrest o Parquet Courts?

Laggiù sui palchi dell’Adidas e del Pitchfork intanto si sta combattendo un’altra battaglia, quella per conquistarsi nuovo pubblico. Il pubblico combatte per scoprire qualcosa di nuovo e che valga la pena, le band per farsi ascoltare per intero. Al giovedì quasi in contemporanea ci sono Julien Baker all’Adidas e i Car Seat Headrest di Will Toledo al Pitchfork che provano a rubarsi pubblico, ed è un dolore anche lasciarne da parte uno solo. La Baker alla chitarra è proprio brava, ma dall’altro lato questa band al secondo disco (Teens of Denial) sembra una delle cose più fresche di cui godere questa stagione. Toledo è giovanissimo, sul palco si legge un leggero imbarazzo, ma la band ci sa proprio fare, i suoni sporchi avvolgono e ci promettono un nuovo incontro al più presto in qualche vecchio retrobottega del punk. L’attitudine punk e sonica era quello che mi aspettavo anche dal live dei Parquet Courts, ma probabilmente nella dimensione all’aperto sfugge. In un’ora di set di cui ho goduto per intero rinunciando a Julia Holter (probabilmente prendendo una cantonata) la band di Andrew Savage sembra meno carica di quanto mi aspettassi. Nonostante pezzi forti e sonici come Dust e Human Performance, sembra che Toledo con tutta la sua timidezza alla chitarra e la sua gioventù riesca a riscaldare più del contestatorio Savage dal vivo. Ma qui parliamo anche di impressioni del momento, che poi son le cose che caratterizzano davvero i festival. Entrambe le band di Toledo e Savage sanno come smuovere nello stomaco l’attitudine di cui stiamo parlando.

Laggiù, nei palchi dove si fanno scoperte, chi ci sorprende piacevolmente è pure Moses Sumney, che suonando tutto da solo con la sua voce nera ci tiene per un po’ a intrigarci con i suoi loop, e il suo avant-folk pieno di effetti.

Quelli che suonano violenti

Buttiamo giù qualche nome: Suuns, Battles, Dinosaur Jr., Ty Segall (soprattutto Ty Segall) e Tame Impala (parzialmente Tame Impala). Avremmo potuto usare l’espressione “quelli che spaccano” se fosse stata sdoganata anche dopo il Ventunesimo secolo, ma ci accontentiamo di parlare di come il batterista dei Battles sia sempre mostruoso e la loro musica una matematica delle emozioni, di come i Suuns siano incapaci di stancarsi, di come gli assoli di J Mascis alla chitarra riescano ancora a essere perfetti e sembrare nuovi, di come bisognerebbe mettere i tappi nelle orecchie per sentire Ty Segall da sotto il palco persino all’aperto, perché urla e suona con i suoi Muggers come un folle ossessivo, e di come i Tame Impala ci conducano dentro un soffuso impazzimento psichedelico. E poi ci sarebbe mister John Carpenter, nome che il Primavera è molto orgoglioso di aver portato qui.

I Suuns all’Apolo @ Seppino Di Trana

Questo punto val bene una digressione. Un festival chilometrico come il Primavera è anche una questione di scelte e improvvisazioni, il risultato è ovviamente perdersi un sacco di buona musica mentre ne stai sentendo altra altrettanto buona. Ma è questa la chiave della bellezza del grande festival. Poter lasciare un palco dopo poco perché il tuo umore è improvvisamente cambiato, un lampo gelido è entrato nel tuo corpo e devi andare via, verso qualcos’altro, l’altrove. Stai camminando e incroci un suono, quel suono, e ti piace, e allora ti fermi a sentirlo. Finché non trovi il grande amore in Pj Harvey. Che ha il potere di farti cambiare il progetto di vedere un po’ di Sigur Rós – sul palco in formazione a tre – e con grazia ti porta a fare un giro verso i palchi minori. Mischiare le carte, e guardare l’alba pensando ancora che non c’era bisogno di andare fino a Barcellona per capire certe cose che sapevi già dentro di te. Per esempio che gli Animal Collective sono ancora sempre grandiosi, e che c’era un esaltato pandemonio al loro live: praticamente tutto il pubblico dei Radiohead si era spostato lì, al palco Ray-Ban, quello in cui se trovi posto sulle scale almeno puoi finalmente riposare le gambe.

Beach Club e PrimaveraPro

Al Primavera Sound c’era ovviamente anche l’elettronica. Il nuovo spazio Bowers & Wilkins Sound System – in parole povere il Beach Club – ha accolto sulla sua sabbia una bella collezione di nomi, da Todd Terje a Matthew Dear ed Erol Alkan (peccato davvero troppo presto). Però abbiamo potuto godere del bel live di Floating Points che si è rivelato più eccezionale del previsto dal vivo. Una scarica di buona musica e una combinazione di sound che ha fatto da ottimo aperitivo a Tame Impala e LCD Soundsystem. Anche i beat di Pantha du Prince sono stati letali in questo senso, a lui l’onore di quasi chiudere il festival prima del catalano Dj Coco. E poi ovviamente i veri re della festa elettronica del Primavera Sound edizione 2016, i Moderat, alle prese con il nuovo album e vecchi classici come Bad Kingdom.

Primavera Sound 2016 @ Seppino Di Trana

Della crescita del festival è testimone anche il parallelo successo del PrimaveraPro, che quest’anno ha accolto 3.500 accreditati da tutto il mondo per partecipare a incontri, attività, banchetti e concerti tra il CCCB e il MACBA nel centro di Barcellona. Al CCCB l’atmosfera che che si respira è molto piacevole, un palco di proposta accoglie gruppi da tutto il mondo presentati da etichette cilene, australiane, spagnole, israeliane, e via discorrendo. Accanto l’aria di una piccola festa che permette uno scambio tra addetti al settore mentre si mangia qualcosa e si beve una birra. Abbiamo visto per esempio gli australiani Jack Carty (votato al folk chitarra e voce) e gli Oh Pep!, ma anche all’Italia è stato riservato uno spazio che ha portato sul palco Matilde Davoli, Altre Di B e Sycamore Age. Anche al Forum lo spazio NightPro continua il discorso delle mattine e dei pomeriggi al CCCB, proponendo musica proprio accanto all’area riservata ai Pro, dove si può mangiare e bere guardando il mare.

E adesso? 

E adesso si potrebbe andare a Porto questo weekend per il NOS Primavera Sound, per esempio. Oppure si aspetta l’anno prossimo, l’annuncio dei nomi, si compra il ticket in offerta il 15 Giugno sul sito del Primavera Sound, ci si distrae, si ascolta musica, si beve uno spritz. Per ora c’è una sola drammatica certezza, neanche l’anno prossimo David Bowie suonerà al Primavera Sound. Ma magari c’è… sì, proprio quel nome che hai in mente.

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