Prodigy – No Tourists

Testa alta, sguardo deciso e mascella serrata: non sarebbe difficile, incrociandola, riconoscere quella sensazione di invincibilità, con un pizzico di spavalderia, che No Tourists sin dalle prime note trasmette. E che viene alimentata dai Prodigy in ognuna delle 10 canzoni di questo settimo lavoro che riesce a trascinare in un vortice amplificato di forme, suoni e adrenalina. Così tanto da far chiedere se di quei 37 minuti, che per qualsiasi album sembrerebbero non abbastanza, sarebbe possibile reggere anche solo un secondo di più.

Originale, no. Geniale, forse anche meno. Magari a tratti anche goliardico ma se un disco deve essere giudicato per come fa sentire l’ascoltatore, in questo caso i visionari Liam Howlett, Keith Flint e Maxim avrebbero davvero ben poco da temere sul successo del loro ritorno sulla scena. E, dopo tre anni dall’ultimo lavoro The day is my enemy possono uscire vincitori anche dal paragone con il passato, perché come pochi questo disco non ne soffre l’esigenza. Anzi, si mostra con tutti i mutamenti della band: si sentono le influence dance, i prestiti rave, la determinazione dell’industrial rock, la sfrontatezza del punk inglese ma soprattutto si subisce il timore della techno hardcore. Ogni tassello si fonde, pur restando distinguibile, nell’autobiografico evil rave.

Ma qui le etichette, non solo di genere, c’entrano ben poco. No Tourists sa accompagnare in ogni angolo del percorso che dal 1990 ha portato la band a essere guida turistica di un paranoico e personale labirinto musicale. Un’evoluzione che ha sorpreso l’ascoltatore con tranelli riusciti dal calibro di Invaders Must Die ma anche scontate e dimenticate strade senza via di fuga. Il risultato? Non poteva non essere l’attesa e la pretesa per questo ultimo cd, annunciato nel 2017 come un Ep e pubblicato dalla loro etichetta indipendente Take me to the ospital con un ritardo che ha fatto crescere incertezze sul valore prima ancora che avesse visto la luce.

Già dalla prima traccia NeedSome1 che esplode in una carica che metterebbe in crisi qualsiasi scettico, si capisce che il tempo non ha fatto altro che aumentare l’appetito ben ripagato. Una canzone intera, tre sole parole – «I need someone» – a volte accennate, altre interrotte ma ripetute come una lagna magnetica che cattura e che trasporta, come nel video, in un viaggio nella distruzione della droga, dell’alcool, dell’odio e della violenza. E se anche queste tematiche fossero lontane dalla band come lo è politica – almeno stando a quanto dichiarato in una recente intervista a La Repubblica – sarebbe difficile non intravedere nella rabbia e nella voglia di ribellione che il disco riesce a evocare, una reazione al rischio che un mondo distopico diventi realtà. Come se quel loro racchiuderlo in nota fosse proprio un modo scaramantico per scongiurarne il pericolo, ora che una deriva sociale non è più così impossibile.

Dopo l’inizio di livello, con grande sollievo il resto non delude. In Light up the sky non ci sono incertezze, prosegue decisa in un’eco di suoni industriali e respiri futuristici e spalanca le porte a We live forever che chiude il fortunato triplete d’esordio. E a un tratto la sensazione di sentirsi su un ring è estatica e si smaterializza in un’ossessionata danza. «We’re here, it’s now/We live forever/The time has come/We live forever», ripetono maniacali dopo un inizio che parte lento per svegliare per poi risuonare in un richiamo alla vita. Per sempre. Quasi a convincerti.

Ci serve la title-track No tourists a far riprendere fiato e a dare spazio a un parziale bilancio di questo disco più che mai inaspettato. Anche un momento di ristoro inevitabile per approcciarsi alla seconda parte  dove si raggiunge il punto più alto con Flight fire with fire, in featuring con il duo hip hop americano ho99o9. Poche note e la paranoia diventa consapevolezza e ti sorprendi a chiederti se quei 300 spartani nella battaglia delle Termopili, o i romani nel resistere ai barbari avessero avuto un Ipod con quella canzone in cuffia, cosa ne sarebbe stato del resto della storia.

Il filone prodigioso prosegue con Champions of London, con il ritmo incalzante e non si sottrae alle battute d’arresto. Nulla è perfetto, così alla mancanza di sperimentazione che nel disco è tangibile ma non determinante, si aggiunge anche una parentesi trash che diventa un punto fermo con Boom boom tap e il suo testo, completo e non proprio d’autore «Boom boom tap, boom boom tap/Tick tick bang/Fuck you!» e Timebomb zone. Il risvolto positivo è che contribuiscono a innalzare il resto, fino a cancellarsi nel colpo di collaborazione con il musicista inglese Barns Courtney. Una scarica di violenza chiedendosi e chiedendoti «give me a signal».

Ma rispondere non è difficile. Se per i Prodigy l’album è la loro personalissima risposta alla voglia di fuggire dalla realtà, basta ascoltarlo per rendersi conto che non solo l’hanno soddisfatta ma l’hanno soddisfatta anche per te. Non importa che tu stia correndo o sia in un bar a sorseggiare il caffè, il contagio è immediato e non c’è antidoto. Perché se davvero nel mondo ci sono due tipi di persone, chi fa lo spaccone e chi invece giudica, sotto l’effetto di No Tourists i convinti sostenitori della seconda categoria rischiano di piangere lacrime di solitudine.

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