Quando Baudelaire parlava di estraneità a Camus e Kerouac

Essere stranieri non è sempre una questione di passaporto ha a che fare, inevitabilmente, con chi sei ma molto meno con il paese da cui provieni. Ci si può sentire stranieri anche senza muoversi ed è, forse, la condizione più strana, quella di chi non si sente a casa neanche quando ci si ritrova. Un sentimento metropolitano, sfuggevole quanto il tram quando sei in ritardo, come la sensazione di non potere trovare pace prima di addormentarsi. Il determinato periodo economico, storico e sociale in cui ci si ritrova costringe a un eterno migrare l’animo inquieto alla ricerca di stabilità. È un sentimento metropolitano perché si può dire nasca insieme alle grandi città, al grande caos, alla velocità delle persone sulla strada, al grande mare di sconosciuti che si forma all’ora di punta sulle strisce pedonali di New York, anche se a Parigi tutto è iniziato o, perlomeno, che troviamo nella letteratura la sua prima definizione:

Dimmi, enigmatico uomo, chi ami di più? tuo padre, tua madre, tua sorella o tuo fratello?
– Non ho né padre, né madre, né sorella, né fratello.
– I tuoi amici?
– Usate una parola il cui senso mi è rimasto fino ad oggi sconosciuto.
– La patria?
– Non so sotto quale latitudine si trovi.
– La bellezza?
– L’amerei volentieri, ma dea e immortale.
– L’oro?
– Lo odio come voi odiate Dio.
– Ma allora che cosa ami, meraviglioso straniero?
– Amo le nuvole… Le nuvole che passano… laggiù… Le meravigliose nuvole!

(L’étranger – da Le Spleen de Paris, C. Baudelaire)

Nel 1869, anno di pubblicazione de Le Spleen de Paris, Baudelaire è già morto da due anni e le critiche subite in vita si sono trasformate in elogi e rimpianti postumi. Il poeta maledetto è tra i primi a realizzare un dettagliato bestiario della metropoli, quando la metropoli era ancora in fasce, nonostante avesse già prodotto i suoi fiori malati e i suoi Degas. Lo straniero, da apparente descrizione del mondo del poeta, quelle nuvole che ricorrono così spesso all’interno della poetica maledetta, diventano a posteriori il regno del nulla. L’impossibilità di legarsi a tutto ciò che da secoli fa parte della vita dell’uomo, la famiglia, gli amici e il successo, sono sintomi del più grande dei distacchi interiori. Sentirsi perduti, immobili, mentre tutto il resto intorno si muove e marcisce. Lo straniero non è mai a casa perché, una casa, non può averla. Baudelaire, come un poeta veggente, anticipa i due concetti fondamentali e costituenti della metropoli: quello di spleen, la noia melancolica davanti al progredire del tempo, e questa estraneità, totalizzante e disperata, prima di Marx e della sua alienazione, prima della costituzione di Wall Street. Tanti anni dopo la sporcizia che insozzava i vicoli parigini non c’è più, ma è come se venisse tolta dalle strade per sedimentare i suoi prodotti dentro all’animo dei suoi abitanti. Ma Baudelaire fa di più. La sua raccolta di poemetti lascia un testamento, quasi un avvertimento, ai contemporanei e ai posteri che verrà ripreso più volte nel corso dell’evoluzione storica. Si può dire che questa estraneità si dirami in due canali preferenziali, uno indissociabile dall’uomo, come condizione assurda, un altro indissociabile dalla metropoli, prodotto di uno spleen sempre più aggressivo che costringe a un movimento continuo e inarrestabile. In questo procedere alla ricerca di una definizione dell’uomo metropolitano, o un’ancora di salvezza, in cui letteratura, arte e filosofia si muovono con lo stesso passo, gli eredi, scrittori o meno, si moltiplicano.

Anch’io come tutti, avevo letto dei racconti sui giornali. Ma certo esistevano libri speciali che non ho mai avuto la curiosità di consultare; in essi forse avrei trovato dei racconti di evasione. Avrei saputo che almeno in un caso la ruota si era fermata, che in quel precipitare irresistibile, una sola volta, il caso e la fortuna avevano cambiato qualcosa. Una volta! In fondo credo questo mi sarebbe bastato: il mio cuore avrebbe fatto il resto. (L’étranger – A. Camus)

È difficile, e dopotutto lo fanno anche i libri delle superiori, non allegare a L’étranger di Baudelaire quello di Camus. Entrambi francofoni ed eredi di un’epoca travagliata, quando Camus scrive uno tra i suoi romanzi più famosi un pensiero al poeta deve averlo fatto. Lo scrittore algerino è quello che si può considerare uno straniero senza patria, esiliato dai circoli parigini per la querelle con l’ex amico Sartre e dalla natìa Algeria per una debole presa di posizione davanti alla guerra coloniale. Ma è anche uno tra i primi a parlare di questo senso di lontananza da convenzioni e affetti. Meursault, il protagonista del romanzo, è distaccato, non dalla mondanità ma dall’esistenza. Non nutre rancore o delusione, accetta la vita per come si presenta e nel caso dell’omicidio accetta la sottile e immodificabile concatenazione degli eventi. È appunto straniero, abitante lontano di quel mondo delle nuvole che, nella realtà, non ha luogo né dimensione. È il ritratto di un’epoca che non sa più chi è e cosa sentire, schiacciata dalla contemporaneità e che, invece di cambiare, subisce passivamente lo sterile progredire della propria esistenza. Non più di una virgola sul grande libro della storia. Meursault rimane, comunque, un uomo profondamente attaccato alla vita, non è un nichilista della domenica che in spiaggia si porta Nietzsche al posto di Baricco, Meursault è come tutti. Si sottrae al flusso della vita, di cui si sente straniero, per viverla senza pensare al domani. Non è la visione, tanto romantica quanto dandy, dell’uomo che prevedendo tutto è disgustato dalla vita, ma di chi accetta quello che succede. Viene eliminata la domanda fondamentale circa il futuro per una resa incondizionata alla vita e alla morte. Meursault, come Camus, è un uomo consciamente esiliato, ed è assurdo perché si sottrae ai vani tentativi umani di essere ricordati dai posteri. In questi termini un ispirato ragazzino, di nome Robert Smith, leggendo le pagine di Camus si metterà a scrivere Killing an Arab per quelli che saranno i The Cure. Ancora una volta a confermare come le differenti modalità di espressione coincidano per intenti quando la descrizione di un sentimento ha a che fare con la realtà di tutti:

I can turn and walk away / Or I can fire the gun / Staring at the sky / Staring at the sun / Whichever I choose / It amounts to the same / Absolutely nothing / I’m alive / I’m dead / I’m the stranger

E, poi, ci sono Jack Kerouac e una parte della Beat Generation. Quell’incessante flusso di parole macinate dai chilometri percorsi, il riferimento costante all’autobiografia e a esperienze che solo a pensarci ci vengono i brividi e ci diciamo: «Perché ci è toccata questa epoca?». In comune con Camus hanno una parte di periodo storico e di condizioni umane: le ricostruzioni post belliche e una nuova possibilità di vita in periodo pace. Senza dimenticarsi la formazione delle contemporanee metropoli. Camus non è autore metropolitano, preferendo l’amenità dell’Algeria all’asprezza di Parigi, la Beat Generation è la parte più marcia delle metropoli, quella dei sotterranei. Giovani distaccati dal mare di convenzionalità e tabù del nord America di quei tempi. Appunto, sotterranei, lontani dalla mondanità e, dunque, stranieri. Così tanto fuori da compiere la scelta di viaggiare per ritrovarsi, allontanare questo sentimento di estraneità fermandosi soltanto quando si è trovato ciò che si cercava. Kerouac ritrovandosi a Big Sur, lontano dalla strada di asfalto ma anche quella di benzedrina e marijuana, inizia a sentirsi male e il libro che produce è uno dei più malati e sofferenti. Stare fermi significa essere costretti a riflettere e a una prosa vitalistica non si può sostituire una razionale filosofia. Il rischio è la follia. I componenti di questa Beat Generation si trovano stranieri, inusuali e costretti a fuggire. Lo spleen è una minaccia di morte e la loro metropoli, per quanto sporca, è la culla dei sogni infantili. Dean Moriarty, in On the road, è l’esempio più lampante, senza radici, costantemente su di giri. Al primo accenno di noia o immobilità si sente morire. Ma è in Orfeo Emerso, libro giovanile di Kerouac, che questa sensazione appare lampante. I giovani, sopraffatti dalla quotidianità si trovano bloccati, vittime di tradimenti e alla costante ricerca di una scintilla che riaccenda la propria vita:

L’analisi si arroga il diritto, dal punto di vista psicologico, di rendere comprensibili certe scelte dell’adulto. Poiché svela certe aree cieche, come fa l’ipnosi, è una rivelazione. Per esempio, cosa potrei scoprire sul mio conto? Un mucchio di cose. Ma io mi rifiuto di scoprirle… sarebbe una rovina per me, mi libererei di foschi segreti e di incubi, di ambiguità ed eccitanti conflitti. (Orfeo Emerso – J. Kerouac)

L’estraneità della Beat G. è il silenzio dopo la tromba di Miles Davis, un’angosciante vuoto esistenziale che li costringe alla solitudine. Sono gli occhi della donna di The stranger song di Leonard Cohen, quando il treno parte e l’ennesimo uomo la lascia sola:

You tell him to come in sit down / but something makes you turn around / The door is open you can’t close your shelter. / You try the handle of the road / It opens do not be afraid / It’s you my love, you who are the stranger / It’s you my love, you who are the stranger.

Queste sono questioni letterarie, ma dove si inserisce la linea di demarcazione fra romanzo e realtà? Quanto questo senso di estraneità si è infiltrato dentro alla costante contemporanea, negli uomini di oggi, che non viaggiano più ma non stanno fermi, che non sono Dean Moriarty né Meursault? Essere stranieri oggi è più silenzioso, forse perché nessuno ne ha ancora parlato davvero, né l’ha descritto nei giusti modi, o forse nessuno l’ha fatto perché non ce n’è bisogno. Difficile, dopo aver guardato queste dinamiche pensare che quella sporcizia parigina se ne sia completamente andata anche dalle strade sentimentali delle persone, davanti ai grattacieli che si alzano e i redditi che si abbassano vertiginosamente.

Il sentimento di estraneità non se n’è andato dal nostro secolo. Si è nascosto dietro ad altre parole, dietro alle scuse della crisi e del progresso. La condizione disperata non ha portato all’eterno migrare, ma alla versione camusiana di accettazione passiva e inconscia dell’imprevedibilità del mondo senza le dovute basi. E noi, come pazzi Kerouac, ci troviamo davanti alla scelta, se muoverci o fermarci, nell’attesa che qualcuno dia giustizia ai nostri sentimenti con un nuovo romanzo per cui potremo essere ricordati. Perché, alla fine, lo straniero per quanto sottraendosi da tutto, cerca un motivo per fermarsi.

 Il disegno in apertura è stato realizzato da An

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