Quel futuro che non si vede

Non è una questione solo di lavoro o di crisi economica, di giovinezza o di uno spiccato gusto post decadente. Il futuro c’è, ma non si vede. Esiste, perché con lo stesso senso enigmatico del giocatore di poker o con l’empirismo radicale di uno Hume scommettiamo sul fatto che ci risveglieremo e che quello che chiamavamo domani ci ritroveremo a chiamarlo oggi. Ma questo non è abbastanza ed è shakespearianamente della stessa materia di cui sono fatti i sogni (atto IV, The Tempest), paradossalmente li vedi, ma non ci sono. Così il concetto di futuro si è rivoluzionato, sai che c’è ma non lo vedi e, in questo mondo, anche i sogni diventano materiali e quasi invisibili. Un destino tremendamente ironico per chi è nato nella società della visibilità esasperata, in cui il più visto è anche migliore, che si caratterizza per una cecità generalizzata davanti al domani, come se gli occhi avessero visto così tanto da essere costretti a chiudersi ogni volta che si spegne la luce sul presente e, per una strana miopia, a non poter andare oltre.

La disoccupazione è una minaccia che si serve con i biscotti alla mattina, un titolo che non cambia sui quotidiani lasciati a marcire sulle bacheche delle edicole, un fantasma che si aggira sulle spalle dei pendolari alle sette di mattina nelle stazioni del norditalia. C’è e si abbatte più sulla psiche che nei portafogli, creando una perversa corsa all’acquisto dell’ultima generazione Apple, essere costantemente connessi impedisce anche di sentirsi soli e l’unica soluzione sembra essere non lasciati indietro dal progresso. Ma l’ombra della disoccupazione è anche la costante idea di fallimento, di ritrovarsi intrappolati nel lavoro pre e post laurea, nel pensiero di ritrovarsi in un posto che non si merita, a raccogliere popcorn in una multisala del centro o a fare fotocopie in un’agenzia di provincia.

L’impasse più grave non è tanto la decadenza di un costume o di un tipo di cultura, che ha sempre trovato spazio per risorgere, quanto la sfiducia nella propria potenzialità di cui le persone, in particolar modo le giovani generazioni, si costituiscono. Non trovare un lavoro che sembra dover essere quello che si merita, inizialmente, non sarebbe un problema, tutti devono fare i conti con la discrepanza fra sogno e realtà, se l’idea di poter riuscire a ottenerlo non fosse qualcosa di cui potersi quasi vergognare, perché troppo lontana dal tempo e dalle condizioni in cui si vive. Più della disoccupazione, oltre alle fragilità e alla difficile comprensione, è la sfiducia a rendere una generazione bloccata dentro di sé, ad accontentarsi e ad andarsene, in nome di una fantomatica città dell’oro raggiungibile superando i confini nazionali. Le migrazioni di cervelli, ma anche di braccia e occhi, non sono mai state così tanto caratterizzate dalla credenza che altrove si stia meglio, perché più liberi e più sconosciuti. Allo scrittore in erba Parigi non è mai sembrata così tanto vicina e necessaria, all’operaio la Germania mai così tanto ricca e salvatrice, nemmeno ai genitori di oggi la fuga appariva così tanto funzionale. In questo aspetto si realizza la maggiore differenza tra le generazioni che hanno abbattuto il muro di Berlino e quelle che invece ne hanno costruiti di nuovi e li hanno lasciati in eredità ai loro figli. Se, prima, si poteva credere in un progresso, in un miglioramento delle condizioni di vita dopo le guerre mondiali e quelle fredde, ora, raggiunto uno standard elevatissimo, l’unica cosa che si può sperare è di raggiungerlo, tensione per il superamento non ce n’è più dentro al sangue giovane.

Il futuro c’è, a differenza degli anni delle guerre in cui arrivare sopravvivere all’oggi sembrava già un miracolo, ma non si vede, perché la speranza non c’è più. Vergognarsi dei propri sogni e delle proprie pretese, sentimenti che si formano quando si blocca la potenzialità e la possibilità di essere accettati per quello che si è, diventa costante davanti a un ricambio culturale, politico e sociale che si è fermato prima che i suoi nuovi protagonisti potessero nascere. Spazio per i giovani non ce n’è, perché una generazione di disperati serve al funzionamento della macchina produttiva di massa, una generazione senza sogni serve per anestetizzare il mercato e renderlo prevedibile, per consolidare tradizioni e stabilità sociale. Il futuro non si vede, perché nessuno crede più nella sua esistenza e nella possibilità di poterselo, davvero, conquistare. Ma si invecchia e ci si accontenta e si aiuta a riempire la schiera di quelli che hanno già buttato la spugna. Una generazione che non è stata bruciata dalle droghe, dal terrore o dalla disoccupazione ma dalla poca fiducia che le è stata data, quella di poter davvero contare su di sé e, sì, di continuare a credere nei sogni.

 

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