Racconti dalle terre americane

Oggi il nostro spazio di consigli di racconti vi porta a fare un viaggio in America, uno svagato on the road da Sud a Nord, dal Cile agli States. C’è tutto il sud d’America nei racconti del colombiano Álvaro Cepeda Samudio, della cilena Paulina Flores e del cuentista uruguagio Horacio Quiroga; si risale in Messico con un racconto di Guadalupe Nettel, fino agli Stati Uniti – terra di indimenticabili short stories – con la penna di Amy Hempel, pupilla di Gordon Lish. Buona lettura e buon viaggio, con il solito invito a lasciarvi sequestrare dalla forma breve.

Álvaro Cepeda Samudio – Eravamo tutti in attesa

Colombia
Ora siamo in questo bar, sempre in attesa. In mezzo ad altre persone, ciascuna con la sua attesa. Ci unisce sapere che siamo tutti in attesa ma non ci conosciamo, e neanche parliamo.

Non è facile spiegare il motivo per cui alcuni libri ci catturano dal primo istante, mentre l’idea di aprirne altri non ci sfiora neanche minimamente. Con Eravamo tutti in attesa di Álvaro Cepeda Samudio, per esempio, è scattata subito la scintilla. L’autore di questo libricino è lo scrittore e regista colombiano che, insieme a Gabriel García Márquez e al pittore Alejandro Obregón, è stato uno dei maggiori esponenti del Gruppo di Barranquilla. La sua prima raccolta di racconti è uscita in Colombia nel 1954 a distanza di qualche mese dal golpe militare del generale Gustavo Rojas Pinilla che aveva spodestato il governo del conservatore Laureano Gomèz. Il paese stava attraversando un periodo di grande arretratezza economica e politica, ma è proprio in quegli anni che letteratura e arte, dopo essere state influenzate dal movimento del nadaismo nato in risposta a una stagione violenta, iniziano a rinnovarsi.

I personaggi di Cepeda Samudio sono gli interpreti principali di un tempo di transizione in cui tutti devono fare i conti con la solitudine. Sono esseri umani in carne e ossa, vulnerabili e incapaci di comunicare, così reali da poterli quasi toccare. Prendono forma attraverso i ritratti a matita realizzati dalla pittrice Cecilia Porras per la prima edizione originale e che ritornano anche nell’edizione italiana pubblicata da Castelvecchi. Donne e uomini di ogni età si muovono, saltando da una pagina all’altra alla ricerca di sé, appesantiti dall’attesa. Troviamo coppie di amanti fotografate nella propria intimità, uomini innamorati di oggetti e bambini capaci di commettere efferatezze: tutti sono impegnati in battaglie senza nome, caratterizzate da obiettivi incerti. Il finale di ogni racconto è aperto, come se spettasse al lettore continuare a proprio piacimento la narrazione, dando sfogo alla fantasia. Leggendo Cepeda Samudio non si incontrano soltanto nuovi volti, si impara a definire le emozioni.

Ilaria Del Boca

Guadalupe Nettel – La vita matrimoniale dei pesci rossi

Messico

Il primo racconto di quella raccolta magnetica che è Bestiario sentimentale della messicana Guadalupe Nettel (pubblicata in Italia da La nuova frontiera nella traduzione dallo spagnolo a cura di Federica Niola) si apre con l’immagine di un Oblomov che muore. Esatto, il nome è quello, proprio come Il’ja Il’ič Oblomov, l’apatico personaggio di Gončarov, solo che in questo caso è un pesce.

“Dubito molto che sia stato felice. È questo che più mi ha rattristato ieri pomeriggio, quando l’ho visto galleggiare come un petalo di papavero sulla superficie di uno stagno. Lui, invece, ha avuto più tempo, più calma per osservare Vincent e me. E sono sicura che, a modo suo, anche lui ha provato pena per noi.”

Un pesce rosso della famiglia dei Betta splendens, per l’esattezza, pesci siamesi combattenti. Prima di lui, nell’appartamento c’era stata ospite una coppia di suoi simili, un maschio e una femmina, ed ecco che, presentandocela per bocca della loro padrona, Guadalupe Nettel ha modo di sviscerare per bene La vita matrimoniale dei pesci rossi. Qui, come in tutti i cinque racconti, la vita animale si fa spessissimo specchio di quella umana. La coppia di pesci rossi combattenti entra in crisi e, di riflesso, anche qualcosa nella vita dei loro coinquilini umani inizia inevitabilmente a incrinarsi. I pesci arrivano addirittura al punto di mettere uno a repentaglio la vita dell’altra. Il punto di rottura arriva presto e Nettel ne affida la narrazione a una donna che ormai riesce a considerare la propria vita (e la propria relazione sentimentale) solo attraverso un filtro che è prima rappresentato dalla boccia e poi dall’acquario, entrambi casa dei due pesci che non perde mai di vista. Quello dell’allontanamento si rivela essere qui il meccanismo risolutore per la vita umana e animale, anche se fa male. Sempre meglio perdersi che finire a sbranarsi a parole o, peggio, a gesti. Guadalupe Nettel lo sa e si fa osservatrice silenziosa delle storie che sceglie di raccontare. Senza mai lasciare indifferente chi legge, grazie alla sua scrittura vera e sanguigna.

Federica Guglietta

Amy Hempel – Nel cimitero dov’è sepolto Al Jolson

USA
«Raccontami qualcosa che non mi dispiacerà dimenticare» mi disse. «Roba inutile, sennò lascia perdere».

Francis Scott Fitzgerald scrisse che quando sei uno scrittore esordiente non hai che te stesso da regalare alla pagina, tutto il tuo cuore. Non lo disse esattamente con queste parole, ma Google non fa mai il suo dovere quando serve, quindi dovete fidarvi che il senso era questo. Nel cimitero dov’è sepolto Al Jolson è il primo tentativo di fiction di Amy Hempel. Gordon Lish, storico editor di Carver, alla prima lezione alla Columbia le chiede di scrivere il peggior segreto «quello che avrebbe demolito il senso di se stessi», insomma riformula il concetto di Fitzgerald con in più una precisazione determinate: non far sconti sulla crudeltà, nessuna autoindulgenza. Hempel, che fino a quel momento aveva scritto per i giornali, imparando a eliminare da una frase tutto il superfluo, risponde con spietatezza e densità, che sarebbero rimaste la sua cifra stilistica. E racconta della migliore amica, malata terminale di leucemia, ricoverata nel reparto rianimazione di un ospedale californiano.

Occorrono aneddoti assolutamente inutili e humor demenziale, per contrastare la fisicità del male che chiama da mascherine, telecamere per l’assistenza dei malati, terapie e punture. «Ride, e io mi aggrappo a quel suono come a una fune che può tirarmi fuori da un burrone»: ecco come scrive Hempel. Distribuisce digressioni, un ritmo di intersezioni che lavora come la memoria o l’inconscio: disordine che cela la catastrofe. «Quello che sembra pericoloso spesso non lo è: i serpenti neri, per esempio, o i vuoti d’aria. Mentre le cose che stanno lì, immobili, come questa spiaggia, sono dense di pericoli». L’allerta per un terremoto possibile moltiplica la provvisorietà, il senso di minaccia quotidiano che aleggia tra le pagine. E nemmeno poter condividere la paura per una prossima volta, il tempo futuro è impronunciabile con chi sta per morire e con tutte le forze si oppone, e chiede compagnia, la tua, il tuo tempo sano, vivo. Il peggior segreto che esige Lish, e che Hempel concede è questo: «Devo tornare a casa» le dissi quando si svegliò. «Mi sentivo debole, meschina e fallita. E anche euforica».

Simona Ciniglio

Horacio Quiroga – Anaconda

Uruguay
“I racconti di Quiroga colpiscono al cuore il lettore e restano stampati nella memoria”
Julio Cortázar

Considerato uno dei padri nobili del racconto ispanoamericano, Horacio Quiroga (1878–1937), uruguaiano, ebbe vita breve e segnata da continue tragedie: l’uccisione involontaria con un fucile da caccia del suo miglior amico, il suicidio del patrigno e quello della prima moglie, fino alla morte per sua stessa mano, dopo aver appreso di non avere alcuno scampo davanti al cancro che lo aveva colpito. Quiroga vivrà l’intera vita come sospeso tra due estremi: la fascinazione verso le regioni tropicali dell’America Latina che amerà profondamente e in cui vivrà a lungo e i salotti in società a Buenos Aires dove darà vita a riviste e circoli letterari. In Anaconda – tratto dall’omonima raccolta del 1921 – appare in tutta la sua inconciliabilità questa frattura: un gruppo di scienziati naturalisti costruisce un Istituto di sieroterapia ofidica nella selva scatenando il timore, lo sgomento e la reazione dei serpenti che la abitano. Tutto il racconto è visto attraverso lo sguardo ambiguo dei rettili, un universo segreto e affascinante diviso tra le velenose e le cacciatrici, una passerella straordinaria di personaggi che Quiroga rende indimenticabili con poche pennellate, evocando mondi misteriosi coi loro nomi: Lanceolada, Crociata, Terrifica, Atroce, Coatiarita, Ñacaniná, Urutù Dorado, Hamadrías e Anaconda con i “suoi due metri e mezzo che valevano il doppio, se consideriamo la forza di questo magnifico boa, che all’ora del crepuscolo se la spassa attraversando da una sponda all’altra il Rio delle Amazzoni con metà del corpo eretto fuori dall’acqua”. Tutte protagoniste di un teatro animale indimenticabile.

Anaconda è la storia della sfida tra due sopravvivenze: quella dell’uomo – che si espande e colonizza – e quella dei serpenti che altra scelta non hanno se non quella di seguire il tragico destino del proprio istinto che li condurrà a una terribile resa dei conti. È un racconto attraversato dall’inquietudine del male, da sempre associato al mondo dei lunghi e sinuosi rettili e, insieme, ritratto pungente e spesso ironico di una comunità in cui Quiroga replica le dinamiche della società umana.

Fabio Mastroserio

Paulina Flores – Spirito americano

Cile

 

Qualche anno fa Marsilio ha pubblicato, con la traduzione dallo spagnolo di Giulia Zavagna, Che vergogna, la prima raccolta di racconti di Paulina Flores, cilena, classe 1988, vincitrice del premio Bolaño. È un libro che ho ancora in testa perché scandaglia il quotidiano e stana con ironia e consapevolezza gioie, dolori, segreti, passioni, solitudini, cambiamenti. A Paulina Flores non interessano distopie o catastrofi mondiali: lei presta ascolto all’essere umano, all’ambiente che lo circonda, al tempo. La maggior parte degli eventi accadono dentro, in alcuni casi sono esplorazioni tra i pensieri, le immagini e le suggestioni dei personaggi. Ma ci sono anche il Cile, gli echi della dittatura di Pinochet, la memoria collettiva violata e manomessa ad arte. Sono nove storie che, per quanto a sé stanti, condividono temi, stati d’animo. La voce di Paulina è cristallina, un mix tra il mistero e le ombre di Silvina Ocampo e la precisione espressiva di Lucia Berlin.

Qui mi soffermo sul racconto Spirito americano: due donne, che sono state colleghe in un pub e amiche, si incontrano per salutarsi e chiacchierare proprio dove hanno lavorato assieme da ragazze. Non ci vuole molto perché la voce narrante si accorga che c’è una stonatura, che la loro amicizia era circostanziata e legata alla condivisione di un luogo di lavoro, che per lei non era neanche definitivo. La donna che racconta e ci conduce nella situazione è reticente, in ascolto; l’altra sfoggia successi. Parlando, saltano fuori particolari mai svelati e relativi a quando facevano le cameriere, il che alimenta il sospetto della protagonista: questa che ha davanti non è una sua amica e neanche una conoscenza piacevole. Il tempo è passato, cambiato le loro vite e ciò che le univa era solo il desiderio di sfangarla, frattanto che centinaia di persone ordinavano da mangiare e da bere. Era l’illusione di una comunicazione, persa nelle filettature dell’esistenza. La voce narrante poi si sofferma su stessa: quando lavorava come cameriera studiava letteratura e non faceva che parlare di politica, poesia e cinema. Aveva la certezza, sfacciata, di aver sempre un asso nella manica e di non avere nulla in comune con quanti lavoravano nel locale con lei. Noi la conosciamo adulta, incredula nei suoi panni, contenuta, senza quella spavalderia innocente che la rendeva scintillante. Alla sua interlocutrice tace l’insoddisfazione per ciò che non riesce a realizzare, mentre l’altra sfoggia i suoi traguardi, come se volesse sbatterglieli in faccia. Il non detto, i pensieri della voce narrante (che riesce ad essere franca con sé stessa, ma non con l’ex collega) sono l’impalcatura del racconto che fa i conti con il cambiamento e l’evoluzione e con il peso del nostro sguardo su noi stessi. Tutto questo materiale umano è ammantato di sarcasmo, ed è il colpo da maestra della Flores, almeno secondo me.

Marina Bisogno
Exit mobile version