Riscrivere le regole: Club to Club 2015

A cura di Ilaria Del Boca e Francesco Pattacini

Foto di Alessia Naccarato

Sono saluti che diventano amari, appena usciti dal Lingotto o dopo quelli di Kode9, storie per chi ha vissuto l’alba e poi si ritrova sul divano a raccogliere i ricordi. Ce ne sono tanti in quella che è stata l’edizione più ricca in cui quasi nulla è sembrato fuori posto. Serve tempo per raccontare l’edizione 2015 del Club To Club, forse più che per viverlo.

Venerdì 6

Una questione di qualità

Chi era il più atteso? E chi ci ha sorpreso di più? Per una volta non possiamo davvero rispondervi, varia per gusti, non per altro e, spesso, chi non credevamo potesse sorprenderci è quello che alla fine ci è riuscito di più. Sono cose che non capitano davvero spesso, di solito le cose finiscono nel modo contrario. Siamo stati letteralmente travolti, ve lo abbiamo raccontato. C’è stato uno stacco fondamentale rispetto agli anni passati, c’era un’aria diversa anche tra chi suonava. È quella che devono avere sentito i Battles quando sono saliti sul palco davanti a tante persone. Tre tipi particolari e tre modi completamente diversi di suonare. L’eco dell’immenso padiglione non li favorisce, lo capiscono, e non lasciano nemmeno un passo e, indiavolati, picchiano sugli strumenti. Ice Cream suona meglio che nel disco, fin quando arriva Atlas e la chiusura di The Yabba. La loro batteria doveva essersi bucata a fine concerto. Sappiamo che il momento è arrivato. Così come quando arriva Oneohtrix nella serata successiva. Continue aperture che si ingurgitano a vicenda senza che davvero qualcuno possa comprendere se il momento dopo potesse essere migliore. Una questione di qualità, o solo un modo di suonare diverso.

Della teoria secondo la quale Thom Yorke e Four Tet siano Burial

Della possibile presenza del leader dei Radiohead se ne parlava da tempo, che quest’anno ci fossero le condizioni per vederlo davvero era ormai diventato più di un pettegolezzo. A un certo punto a questa teoria ci ho creduto davvero quando è arrivato un messaggino ai cospiratori sulla sospetta dei Burial e dei Cypress Hill nell’after. Le loro idee avrebbero stuzzicato chiunque, come se ci fossero altri motivi per non mancare. Tendenze a parte, Four Tet sale sul palco subito dopo i Battles e decide di cambiare alcune regole secondo cui, oltre alla questione del lavoro carbonaro, la musica possa renderti totalmente schiavo. Se quella che abbiamo sentito era davvero Plastic People avevamo davvero un motivo per gioirne. Quello che riesce a fare ci blocca completamente e ci usa senza chiederci il permesso. La folla si stringe, il sudore sulle fronti e tanti piccoli movimenti che fanno tremare il pavimento. Morning Side chiude un set volato via, e poi c’è Thom Yorke. Il tempo per dispiacersi arriva con una lunghissima attesa, capace di spezzare anche i più entusiasti. Thom Yorke sale sul palco immerso nei grandi schermi. The Clock è un inizio che ti conquista totalmente. Sarà un rincorrersi di diverse sensazioni, ma così è. Non importa quello che pensi, se questa strada non sia quasi fondamentalmente un elogio di sé stessi e che dopo un po’ ti costringe a fermarti e solo rimanere a guardare immobile. I visual rendono ancora più forte questa esperienza e quello che avevi perso nell’attesa si trasforma in soddisfazione per esserci comunque stati. Non si dimentica il tempo degli Atoms For Peace con Anok ma arriverà per forza anche quel momento in cui tutto scomparirà, sembra dirci Default, quando Yorke ritorna sul palco, situazione inedita per il posto in cui ci troviamo, ma è un regalo dovuto a chi è rimasto per lui e che hanno perdonato in fretta. Davvero potrebbero avere un progetto losco, alcuni suoni ricordano altro, ma si tratta soltanto di una suggestione indotta. Burial è un’idea, un simbolo di cosa l’uomo può creare, non la maschera di un movimento. Poi succede che Four Tet annunci la sua presenza nel video di Creep ed è tutto da rifare.

 

 

La Sala Gialla o Sala delle Meraviglie

Quello che, invece, succede sul Red Bull Music Academy Stage – per gli amici Sala Gialla – rimane per tutti un segreto da custodire gelosamente all’interno di queste mura. Camminiamo a passo spedito allontanandoci dal Padiglione 1 del Lingotto, mentre i nostri occhi riflettono ancora le luci del main stage e il freddo lentamente ci riempie le ossa. Il tragitto sembra ogni volta interminabile, ma è allo stesso tempo un atto dovuto e un rituale di purificazione per poter entrare nel vivo del festival. Nelle precedenti edizioni bastava allontanarsi di pochi metri dal palco principale per arrivare nella Sala Rossa ed essere catapultati in una bolgia di sudore, pelle e vibrazioni, ma quest’anno, complice un’affluenza decisamente superiore, è stato necessario trovare maggiore spazio per consentire a tutti di assistere alle performance degli artisti. Venerdì notte, tra i tanti, abbiamo scoperto l’r’n’b ammiccante di Tala, ritrovato i ritmi carnevaleschi dei Ninos du Brasil, il duo italiano composto da Nico Vascellari e Nicolò Fortuni che aveva già infiammato un anno fa il pubblico del Club to Club e abbiamo spintonato per poter chiudere un secondo gli occhi sotto la consolle di Todd Terje e viaggiare lontano. In questo angolo di festival, ogni contatto diventa più intimo e speciale: difficile trovare altrove suoni così puliti, luci soffuse e un’atmosfera da batticuore. L’esperimento ancora una volta ci è così piaciuto che andarsene è sempre straziante, ma sappiamo che si tratta solo di un arrivederci.

È la doppia X a far la differenza

Dopo la performance di Thom Yorke nessuno è riuscito a riprendere fiato, c’è chi ha ancora il sorriso stampato sul viso e quelli che, invece, un po’ di amaro in bocca ce l’hanno e non possono far altro che deglutire, ma Jamie XX, al secolo Jamie Smith, non aspetta. Anche se le gambe sono diventate molli e gli sguardi si fissano nel vuoto, pare che la notte non debba mai finire, lo ha decretato il ventisettenne britannico che ci ha tenuto svegli fino all’alba e che quest’anno ha dato alle stampe In Colour, sbalordendo la critica e il pubblico. È impossibile vedere qualcuno che riesca a stare immobile mentre le sue note zampettano dal palco alla platea in una girandola senza sosta. Rapido nella selezione dei vinili, si trasforma in uno sciamano pronto a incantarci non solo con un’elettronica pop e perfettamente ballabile, ma anche con la disco anni ’70 e i ritmi dell’America Latina. Questo show di quasi due ore ha il grande pregio di non annoiare e di trarre vantaggio da un vasto repertorio di campionature eccellenti tra cui quella di Could Heaven Ever Be Like This del batterista jazz Idris Muhammad scomparso un anno fa o quella di Everything In Its Right Place dei Radiohead, come a volere omaggiare l’headliner della serata. Quanto studio e dedizione ci sia dietro a uno spettacolo di questo tipo probabilmente non possiamo neanche lontanamente immaginarlo, ma quel che è certo è che se ci fosse il tasto rewind continueremmo a schiacciarlo.

 

 

Sabato 7

Nicholas Jaar e le regole dei djset

Davvero ci siamo ricascati, e ce ne siamo accorti nel momento che ci rialzavamo dal letto solo per tornare nello stesso posto. Oneohtrix Point Never la sa lunga. Andy Stott ripete la morale e la conferma. Non fosse stato per una metro troppo affollata e le attese infinite aspettando qualche sconosciuto, o solo la nostra perseveranza avremmo potuto goderne di più. Così ci confondiamo di nuovo insieme ad altri, esaltandoci con la successione dei loro pezzi. Siamo meno in forma, ma questo non ci salva dal ritorno nel brivido della sera prima. Poi arriva Nicholas Jaar e scompiglia praticamente ogni cosa. Se il djset di Jamie XX era stato incredibile e difficile da replicare, il ragazzo venuto da NY deve essersela presa sul personale. Quello che fa non è semplicemente mettere su dischi. Scuote ogni cosa con un primo momento minimal, per poi recuperare il ritmo in quelli successivi. È un qualcosa ai limiti del legale, perché tanti potrebbero sentirsi offesi e rivalutare gran parte del proprio lavoro, forse per questo in tanti non ne sono rimasti impressionati. La questione principale è che ci rendevamo conto del fatto che probabilmente, quella, sarebbe stata la musica più leggera per un po’ di tempo. Con le sue scelte inusuali Jaar continua a stupire e non ci lascia rifiatare prima dell’arrivo di Jeff Mills.

Jeff Mills e l’arte di non mettersi in disparte

Le transenne dietro ai mixer sono il luogo migliore da cui godersi Jeff Mills, l’alieno di Detroit che non risparmia sui decibel e sull’arroganza della cassa dritta. In questa notte calda di novembre, le poche ore di sonno iniziano a pesare e i battiti del cuore aumentano d’intensità, ma quello che ci aspetta è uno dei momenti migliori di questo appuntamento musicale torinese. Sebbene la techno non sia un genere che tutti possono facilmente apprezzare, Jeff Mills ci porta subito con la solerzia e la chiarezza di una guida turistica alla scoperta di questo mondo per molti inesplorato. Ogni respiro prende forma, la musica acquisisce un’anima e tra luci di fuoco e tempeste glaciali, il dj americano diventa il dottor Victor Frankenstein. Le sue creature siamo noi, trascinati come burattini dalle scariche di adrenalina e dagli ultimi bagliori visivi. La sala è ancora gremita di ballerini solitari e di individui accasciati a terra nel dormiveglia quando le ultime note diventano rintocchi non di mezzanotte, ma dell’alba e scappiamo prima che la nostra automobile si trasformi in zucca.

Cosa resta di questi primi quindici anni?

Quindici anni passano in fretta, ma mai come nell’ultima edizione del Club to Club le carte in tavola sono cambiate. Quello che oggi salutiamo è un festival sempre più famelico e internazionale, che pretende non solo grandi nomi e grandi spazi, ma anche un’organizzazione che sia di livello a 360 gradi. Nulla è lasciato al caso, forse solo un pizzico di ingenuità nel voler tentare di cambiare le sorti del panorama musicale italiano, che il più delle volte sembra godere in modo esageratamente masochistico nel vedersi dare la zappa sui piedi. Eppure, non è questo il caso del Club to Club che ha due piedi che corrono pure veloci.

 

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