Reinterpretare Joy Division e Hank Williams | Luca Andriolo racconta l’arte della cover

I Dead Cat in a Bag sono una delle realtà più forti della scena musicale contemporanea: identità notevole, poesia, abilità tecnica, esplorazione stilistica. La band torinese ha pubblicato due album: Lost Bags nel 2011 e Late For a Song nel 2014; due piccoli gioielli che hanno messo in evidenza un approccio trasversale al concetto di cantautorato. Un folk oscuro con riferimenti ai suoni di altre culture, al minimalismo “raschiato” e all’intimismo più penetrante e non privo di distorsioni.

La penna e le interpretazioni di Luca Andriolo fanno sicuramente la differenza. Il cantautore e musicista piemontese ha pubblicato recentemente un disco solista con il nome di battaglia Swanz The Lonely Cat. Covers On My Bed, Stones in My Pillow è uscito ufficialmente per Desvelos Records e raccoglie dieci reinterpretazioni molto personali di brani di Kris Kristofferson, Joy Division, Hank Williams e altri. Abbiamo fatto una chiacchierata con Luca Andriolo che prova ad analizzare la scelta dei brani e il percorso solista dell’artista torinese.

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È difficile chiamare disco di “cover” il risultato del tuo lavoro. Credo che la parola reinterpretazione sia più esatta come definizione. Come si è sviluppata l’idea di questo disco?

In verità ho iniziato, per impratichirmi, a… giocare con due microfoni e una scheda audio che mi avevano imprestato. Mi è venuto spontaneo registrare alcune canzoni che mi piacciono o che stavo ascoltando in quei giorni. Avevo sempre immaginato una Love Me Tender cantata da un maniaco al telefono, di notte, che tuttavia chiede davvero di essere amato. Una specie di scena apocrifa di un film di Lynch o Wenders. Così ho fatto una registrazione abbastanza rudimentale e l’ho messa da parte. Poi, diciamo per comunissimi motivi biografici, ho registrato una For The Good Times che era proprio un’istantanea, piena di un pathos irripetibile, non troppo diversa dall’originale di Kristofferson, ma anche abbastanza mia, perché la voce era la mia e soprattutto la mia di quel momento. Così mi è venuto in mente di provare a strutturare una tracklist e qualcosa come un disco, che però non credevo avrei pubblicato. Tuttavia, i Dead Cat In A Bag erano in pausa per le registrazioni ed era il momento di uscire con qualcosa… almeno così continuava a dirmi Cinzia, cioè HardTimesManagement, che ha proprio svolto il ruolo della levatrice (e non solo). L’idea delle cover è sempre rischiosa. Un disco composto da classici suona tracotante già nelle intenzioni, se non sei Frank Sinatra o Johnny Cash. Non si sa, poi, se osare riscrivere delle parti o mantenere il più possibile dell’originale: probabile che in entrambi i casi si incontrino detrattori. Mi sono tenuto nel mezzo, anche se la tonalità degli accordi è quella originale per l’80 % del lavoro. So benissimo che quelle canzoni non avevano alcun bisogno di me, però io avevo bisogno di loro. E alla fine sono contento di aver fatto questo disco, che esce per Desvelos, di aver messo alla prova la mia capacità di riarrangiare, di suonare e cantare, di registrare e di omaggiare queste composizioni che – diciamolo – sono tanto belle da essere impossibili da rovinare.

In questo percorso di valorizzazione dei brani è emersa anche l’urgenza o la voglia di scrivere qualcosa di inedito che rispecchiasse il percorso musicale di questo disco? E come si differenzia il processo creativo rispetto al lavoro con la tua band?

Non ho mai smesso di scrivere canzoni e nel frattempo ho continuato a lavorare al disco d’inediti dei Dead Cat In A Bag, che al momento però funzionano in un modo piacevolmente collettivo, poi ho composto la colonna sonora per uno spettacolo teatrale, che si chiama Oscuri Ardori ed è una rivisitazione del Macbeth, e posto le basi per un disco a quattro mani con Stella Burns, anche lui reduce da un disco di cover. Il confronto coi giganti del passato pare essere un passaggio obbligato. Ma è un processo che avviene sempre, anche quando si tratta di materiale originale. C’è sempre lo spettro del derivativo e il rapporto con la tradizione, la necessità di un punto di vista personale, la ricerca della legittimazione. Il processo è diversissimo, in questo caso, perché ho fatto tutto nel salotto di casa o in camera da letto, ad orari anche impensabili, con una diversa naturalezza.

La scelta dei brani è molto varia, anche stilisticamente parlando. Come è avvenuta la selezione dei brani e degli artisti? C’era un intento preciso, un filo conduttore o semplicemente hai fatto riferimento agli ascolti che ti hanno forgiato?

Devo ammettere di aver scelto le canzoni che parevano venirmi meglio. Lovers è un brano di Tyla, dei Dogs D’Amour, con un testo amarissimo e molto bello; Thoughtless Kind una sorta di perla nascosta d John Cale, che amo molto, A Mother’s Last Words un vecchio spiritual folk di Washington Phillips… le altre sono canzoni molto celebri per chiunque. All’inizio pensavo di registrare solo quelle che avrei potuto eseguire interamente da solo. Poi ho chiesto a Thomas Guiducci (chitarra banjo, banjolele, grancassa e di fatto co-produzione, presso la sua Good Luck Factory, dove avevamo finito da poco di lavorare al suo disco The True Story Of The Seasick Sailor in The Deep Blue Sea, in cui ho suonato e messo mano al mix), Roberto Necco (longneck banjo) e Francesca Musnicki (archi) di intervenire e aggiungere un tocco di arrangiamento su qualche brano. Devo dire che il loro apporto ora mi pare quasi fondamentale per quel suono che mi assomiglia molto ed è insieme diverso da quello della mia band. Nel frattempo io ho sovrainciso di tutto, dalla balalaika allo stendibiancheria, fino al rumore della scavatrice sotto la mia finestra (anche perché i rumori ambientali erano impossibili da eliminare) e ho aggiunto queste parti allo scheletro di chitarra, banjo e armonium iniziale. Il risultato è scarno e ricco al contempo, soprattutto grazie ad Antonio Gallucci, che ha eseguito un mastering avventuroso, al suo Heady Beach Studio. Alla fine, si può dire, il mio lavoro solista non l’ho fatto per niente da solo…

Mi vorrei soffermare in particolare su due reinterpretazioni che mi hanno colpito: The Eternal e Cold Cold Heart. Due interpretazioni particolarmente intense e che a mio parere rappresentano al meglio il tuo “mondo”. Come hanno influito Joy Division e Hank Williams sul tuo modo di fare musica?

Non so rispondere esattamente e me ne scuso. Sono artisti che ho ascoltato e che vanno a formare due background differenti. La prima canzone l’ho prelevata dal suono dark-new wave e l’ho fatta diventare una sorta di requiem dell’Est Europa, la seconda è diventata una sorta di drone elettrico… mi pare che sia uscito un approccio un po’ Constellation, un po’, addirittura, Bargeld & Co. Lo scoglio è stato, più che l’interpretazione, cantare davvero tutte le note (anche se la linea melodica passa attraverso la versione di Lucinda Williams), un’ottava sotto l’originale. Questo è il disco in cui ho recitato meno e cantato di più e anche in maniera a suo modo più tradizionale. Tranne il grido finale di Watchtower, che è una follia e lo so. Si tratta di un folk particolarmente espressionista, in alcuni momenti. Diciamo che ho scelto quella direzione per motivi… sentimentali. È un disco di canzoni abbastanza meste. E sì, sta tra il dark e il country folk. Credo che esista una cosa chiamata folk apocalittico, ma per me già Johnny Cash è sempre stato abbastanza oscuro, senza riverberi abissali.

In questo disco non c’è Leonard Cohen. Hai contribuito alla realizzazione di un suo tributo con il brano Hunter’s Lullaby. Come mai hai deciso di non inserire quella reinterpretazione e cosa ha significato per te Leonard Cohen e in particolare quel brano?

Quel brano è stato una sorta d’incoraggiamento ad accettare la sfida delle reinterpretazioni. Non l’ho inserito perché era stato registrato coi Dead Cat In A Bag e questo è un lavoro del Gatto Solitario. Cohen è sempre stato uno dei miei poeti in lingua inglese preferiti, un cantautore di riferimento, un padre, un nonno, un fratello maggiore, un rivale in amore, un amico. Ricordo il giorno in cui è morto: mi sono sentito molto solo e orfano. È anche un cantante di riferimento se ti trovi come me a gestire una voce non pulita e carica di bassi. Senza di lui, tutto sarebbe stato diverso.

La prossima fase potrebbe essere un disco solista di inediti o sei già al lavoro per il nuovo dei Dead Cat in a Bag?

La seconda che hai detto. Per ora gli inediti sono tutti molto… orchestrali. Non credo di riuscire ancora a comporre il mio Nebraska personale. Non escludo nulla, però vorrei tornare a far suonare musicisti che sono molto migliori di me e con i quali ho ormai un grande affiatamento e concentrarmi di più sulla mia parte. Ho scritto i miei testi migliori, in questo periodo. E anche delle melodie che mi piacciono. Andiamo avanti pian piano.

Quali ascolti ti hanno entusiasmato in questa prima parte del 2017?

So di deluderti: non seguo più molto le novità. Sono rimasto indietro. Ascolto ancora molto l’ultimo di Cohen, l’ultimo di Bowie, l’ultimo di Lucinda Williams. Poi ho appena scoperto Carrie Rodriguez. Sono in ritardo di almeno un anno su tutto, temo. Adesso sto ascoltando Malcolm Holcombe. Non ho ancora capito se quest’ultimo disco mi piaccia o meno.

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