I MONEY dal vivo non si fanno schiacciare dalle eredità di Joy Division e Smiths

Foto di Matteo Dalla Pietra

È una fredda serata ad accogliere l’arrivo dei MONEY a Milano, cornice in perfetta sintonia col titolo del loro ultimo lavoro, Suicide Songs. La versione invernale al chiuso del Circolo Magnolia è più che sufficiente ad ospitare le poche decine di persone presenti quando Jamie Lee si presenta, solo, sul palco. Sorriso malizioso e lattina di birra in mano sono il suo biglietto da visita, mentre ondeggia imbracciando una chitarra acustica. Il frontman del gruppo prima guarda il suo pubblico, lo soppesa, sembra sfidarlo; poi, con una battuta dal tono strascicato sul suo personale dramma nel prendere un aereo il lunedì, fa temere il peggio riguardo la sua sobrietà.

Ma le prime note di Drinking Song spengono all’istante qualunque mormorio preoccupato: il suono della voce riverberata che esce dagli speaker ha l’effetto di un magnete che, inesorabile, attrae a sé occhi e menti dei presenti. Il tono rauco e caldo, intervallato da risatine sguaiate, convince ed avvolge: il ragazzo di Manchester sa esattamente cosa sta facendo. Il resto della band si unisce per il secondo pezzo, You look like a sad painting on both sides of the sky, ed oltre alla formazione base (il chitarrista Charlie Cocksedge, il bassista Scott Beaman e il batterista Billy Byron) c’è spazio anche per un violoncello e un violino che accompagnano con dolcezza il malinconico spegnersi della canzone.

A sigillo del loro rock “corale distopico” i MONEY alternano momenti di crescendo disarmonico a melodie tipiche delle grandi ballate orchestrali. Ma è sempre Lee a farla da padrone, smontando il microfono, scendendo dal palco e continuando a cantare in mezzo al pubblico: è’ l’impatto emotivo ciò che conta, forse ancora più dei testi. La gente è rapita e si lascia condurre attraverso le diverse stanze che il cantante decide di aprire con le sue chiavi musicali, dai rigurgiti britpop di I’m Not Here, alle declamazioni gridate nella notte di I’ll be the Night, al monologo seduto di Suicide Song. A dispetto di titoli e parole, è potente l’effetto consolatorio, quasi incoraggiante che trasmette la voce di Lee, capace di modularsi tra falsetti angelici e sfoghi rabbiosi.

C’è ancora tempo per l’introspettiva Cocaine Christmas and an Alcholic’s New Year, un paio di altre lattine di birra, ed una conclusiva Goodnight London con solo voce, piano e violino. Poi l’incanto svanisce, lasciando in bocca un gusto agrodolce e la consapevolezza che è durato tutto troppo poco.

L’immagine non a fuoco di Suicide Songs come di un collage di pezzi, sconnessi al primo ascolto, si disintegra di fronte alla potenza emotiva della performance live. Tanto reali ed efficaci quanto mai completamente lucidi, i MONEY custodiscono il loro segreto nella capacità di restare sospesi con disincanto tra l’esistenzialismo melodrammatico dei testi e le pesanti eredità musicali (Joy Division e Smiths fra tutti), senza farsi schiacciare. Lo stesso precario equilibrio che tiene in sospeso quel coltello sulla copertina dell’album e che accompagna le movenze di Lee quando sparisce ciondolante dietro al palco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scaletta:

1- Drinking Song
2- You look like a sad painting on both sides of the Sky
3- Night came
4- I’ll be the Night
5- I’m not here
6- Suicide Song
7- Hopeless World
8- I am the Lord
9- A Cocaine Christmas and an Alcholic’s new Year
10- Goodnight London

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