Basta revival: a Jacco Gardner dal vivo manca qualcosa

Raccontare il concerto di Jacco Gardner al Covo senza un po’ di sana masturbazione intellettuale significherebbe rinunciare a metà del godimento. E se la vita mi ha insegnato qualcosa, è che ci si deve sempre fidare delle pubblicità di salatini.
Prima di addentrarci nel tanto atteso onanismo di cui sopra, sarà bene spendere qualche parola su quello che – Spoiler alert – si è rivelata essere la parte migliore della serata secondo chi scrive, ovvero l’opening act dei veronesi C+C=Maxigross. Evidentemente ispirati dai 70s, la loro musica riesce a catturare il meglio di quell’epoca – che ci ha regalato anche non pochi orrori, sappiatelo – o quantomeno ciò che è sopravvissuto meglio al tritacarne degli anni che passano e della nostalgia imperante che tutto riscopre (persino lo storytelling urbano di Max Pezzali). Con un attenzione meticolosa ai suoni e alla coerenza di quanto viene suonato, che spesso viene a mancare in contesti simili, la band ha via via sciovinato le proprie influenze country in Est 1973, dove ha trovato spazio il banjo di Hakon Gebhardt, le sfuriate à la Crazy Horse, riarrangiate per chitarra e iPad(?), e, infine una, vena più immediata e orecchiabile, quella un po’ Nilssoniana di An Afternoon with Paul.

E questo brano è il miglior biglietto da visita per testimoniare ciò che dà un’effettiva marcia in più alla band italiana – Spoiler alert – rispetto a chi le seguirà sul palco, ossia la capacità di coniugare gusto, tecnica e conoscenza del passato con una componente essenziale del grande songwriting, spesso sottovalutata. No, non è questo il momento di approfondire il rapporto tra abuso di sostanze psicotrope e scrittura creativa: a riguardo potete trovare svariate guide online o nell’edicola più vicina a casa vostra. L’abilità di cui parlo è quella di inventare melodie, orecchiabili e banali che siano, affondate negli arrangiamenti più complessi e contorti, ma che restino pur sempre incollate nella mente di chi ascolta. Come ha detto una volta George Benson (non quel Benson): “se non riesci a vendermi una melodia, allora il resto non ha senso”.
E arriviamo qui al momento masturbatorio già anticipato: quello delle categorizzazioni e dei sotto-generi che ogni scrittorucolo di musica deve saper padroneggiare. Sì perché, se proprio volessimo, e lo vogliamo, fare un po’ di ordine all’interno del popolatissimo mondo dei revivalist, potremmo allora operare una prima, sommaria distinzione. Da una parte, la fazione più piaciona, e, di conseguenza, più attuale, che include i Tame Impala, per capirci, ed una seconda, più integra e, di conseguenza, più datata, in cui, se esistessero le Primarie (sempre siano lodate), i Fleet Foxes godrebbero della maggioranza assoluta. Entrambi ovviamente presentano i loro motivi di interesse (Unknown Mortal Orchestra e Jonathan Wilson, per essere bipartisan) ma anche le loro incongruenze e piccole disonestà intellettuali.

Ai primi si potrebbe imputare lo sfruttamento selvaggio di cinquant’anni di cultura popolare, una sorta di fracking o disboscamento acustico di quanto accumulato da generazioni e generazioni di artisti, con una conseguente banalizzazione delle loro stesse fonti. Una volta si diceva che in Prince rivedevamo Jimi Hendrix, e questo era un complimento; ora sono gli stessi artisti a volersi reincarnare nei propri miti d’adolescenza, e questo è inquietante.

Al secondo gruppo, quello dei puristi, sembra invece appartenere Jacco Gardner, influenzato da Syd Barrett e dalle nenie psichedeliche del Robert Wyatt di Ruth is stranger than Richard. In loro, e nel revival in generale, Stray Cats inclusi, va rintracciata una sorta di comune incoerenza di fondo. Sotto le mentite spoglie dell’estetica bucolica e rilassata, down to earth direbbe qualcuno, della Laurel Canyon di John Mayall, questi artisti nascondono un’attenzione a dir poco spasmodica al come la canzone arriva all’ascoltatore. Di fatto, sembrerà paradossale ma ciò a cui non riescono a rinunciare è proprio il feticcio della tecnologia, di ciò che veicola la loro musica al pubblico: la più contemporanea e banale delle perversioni. Di per sé questo non sarebbe un male, rappresentando, finalmente, una inevitabile e brutale iniezione di realtà (vi immaginate mai la scena di Devendra Banhart a rinegoziare il mutuo in banca? Io no), se non fosse che, spesso, a risentire di questa tendenza sia la qualità stessa delle canzoni, in termini di vera e propria empatia con l’ascoltatore.

Ciò che è mancato al live di Gardner è stato proprio questo: nonostante l’acustica perfetta, il suono pieno della band, oltre che un pubblico numeroso e bendisposto, la musica del cantautore olandese è sembrata quasi scivolare sopra chi la stava ascoltando, come in un insistito deja-vu, particolare ma ordinario allo stesso tempo. Gli arrangiamenti della band di quattro elementi, tecnicamente ineccepibile, hanno riportato un’atmosfera inaspettatamente persino più ripulita di quella su disco, che avrebbe invece beneficiato dei volumi e delle atmosfere della resa dal vivo. Al contrario, soprattutto nella prima metà della serata, l’impressione è stata quella di una sostanziale assenza di dinamiche all’interno del gruppo, confinato ad un’esecuzione pedissequa dell’album, che l’ha allontanato dal suo pubblico, rivelando tra l’altro qualche ripetitività di troppo nella scrittura di Gardner. Sul finale, la band si è un po’ sciolta, scambiandosi gli strumenti per eseguire How to live again, il miglior brano della serata, e concludendo l’esibizione con una dichiarazione d’amore per la musica italiana e per Ennio Morricone in particolare, seguita da Find Yourself, che ha sicuramente risentito della sua ispirazione. Una canzone che non avrebbe affatto sfigurato nel fantastico Rome di Daniele Luppi e Danger Mouse, né in un qualsiasi altro album prodotto negli anni ’60, né tantomeno in uno che volesse riprodurre il sound di quegli anni. È questo, mi pare, il miglior complimento che si possa fare a Jacco Gardner, e al suo amore incondizionato per la musica di quell’epoca.

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