Robot Festival: Lost Memories, di quella volta che ci siamo dimenticati

Ci sono alcune situazioni che prescindono dal comune e dargli voce non pensate che sia cosa facile. Riordinare le idee è prassi quando ti muovi nel seminato, il roBOt07 è stato sicuramente tutt’altro.

L’arrivo è presto, la vita di provincia è composta da una gran dose di noia e rimanere in casa spesso è dura.
Il navigatore ci porta in Bologna Fiere con estrema facilità, lasciando a noi l’arduo compito di trovare l’entrata per cazzi nostri. Quattro porte coi nomi dei punti cardinali, si entra a est, parcheggiamo a ovest.
Una lunga camminata ci trascina nell’atmosfera industriale di quella parte di Bologna e sembra già tutto scritto.
Sorvolando la descrizione dell’avvicinamento di qualche imprenditore nel campo del divertimento chimico, dopo una ventina di minuti (ma davvero, venti) si arriva a Bologna Fiere Est.
Duecento persone, molte delle quali già ubriacate, si dispongono in una fila paradossalmente ordinata in attesa di entrare: d’Italia ci sono solo la lingua e i discorsi di chi i Moderat li ha scoperti quest’anno grazie all’Enel. Alle ventidue e trenta, minuto più minuto meno, inizia la processione silenziosa. Il percorso lunghissimo e un numero insensato di check point per il controllo del biglietto terminano nella Main Room. Quelli che mi sembrano ottanta metri (ma potrei sbagliarmi) separano l’ingresso della sala principale alla transenna del palco, in mezzo tre linee di ritardo, tre bar e qualche sparuto visitatore, probabilmente annoiati membri dello staff.
Il tempo di individuare e salutare Populous che lui e il suo compare Andrea Rizzo (nel live fisso sulle percussioni) salgono sul palco. Parte il profondissimo live di Populous che accoglie le prime timide centinaia di persone che in un primo momento non hanno il coraggio di affacciarsi in transenna e occupano posti random nella Main Room.
Quel che fa Populous è grande. Il viaggio del suo recentissimo Night Safari è il primo trampolino della serata verso la non realtà, complici dei visuals atomici è impossibile non cedere al ballo, quello sobrio di chi è appena arrivato e credeva solo di dover scaldare il corpo (fuori c’era freddo davvero) ma si ritrova nel bagno caldo di chi ti presenta il suo mondo, quando tutto vibra alla frequenza della natura. Inizio serata più che giusto.

Assassini i bar che prima di mezzanotte davano due vodka redbull al prezzo di uno. Di vittime ce n’erano tante ma l’area di festa che si respirava andava oltre qualsiasi tipo di ubriachezza.
Il flusso di persone che entravano nella Main Room è stato continuo e inarrestabile fino alle due e mezza. Scelta giusta, vista anche la quantità di persone da salutare quella sera, è stata la prima visita in area fumatori. Anche qui all’organizzazione del roBOt si può dire ben poco, sensatissima la scelta di fissare il sold out ben prima di imballarci tutti come sardine. Ogni luogo di Bologna Fiere, bagni compresi, è stato vivibilissimo a ogni ora della notte e questo non può che essere un enorme punto a favore per la buona riuscita della serata.

Ci perdiamo i primi pezzi dei Dark Sky (giuro che non l’abbiamo fatto a posta, ammé me piac o’ blues) ma quel che riusciamo a vedere è una bomba che gira sempre attorno alla deep house, di un coinvolgente rarissimo. I figli della Monkeytown Records, sanno cosa vuol dire fare un live show e a conti fatti sono stati la sorpresa del roBOt07. Certi arpeggi ti entrano in testa, ti rapiscono e te ti fai rapire volentieri. Dire altro potrebbe rendere la descrizione del live più macchinosa del live stesso, che è stato quanto di più scorrevole fosse accaduto fino a quel momento.
Non ricordo esattamente se alla fine dei Dark Sky ci fosse ancora la storia dei Vodka Redbull, sta di fatto che io personalmente stavo bene.
Ai bagni chimici si incontra un sacco di gente ed è stato indice della bellezza della serata il fatto che non ci fosse neanche uno di quei tipi soliti che non sanno drogarsi. Nessun ubriaco molesto, eppure di ubriachi ce n’erano. Viaggiava tutto per il verso giusto. Peccato per Gold Panda.
È stato LA NOIA. Metti la cassa, togli la cassa, campanellini orientali, metti la cassa, più campanellni, togli la cassa, pezzo dopo, metti la cassa e così per quarantacinque minuti. L’ormai consistente pubblico sotto il palco urlava in segno di gradimento a ogni cassa messa ma tutto sommato c’era davvero poco in quel live. L’ultima volta che l’ho visto, benché non sia mai stato un mago dell’improvvisazione, comunque è stato molto meglio di sabato sera. Un peccato. Gli si da atto che è comunque riuscito a tenere banco e a continuare a fomentare il pubblico della Main Room.
Risparmiando i viaggi pisciata e pisciate sui muri, sbocchi altrui sull’asfalto di una bellezza sconcertante, tipi in bad trip e tipi in trip giusto arriviamo a quando abbiamo detto “regaz tutti dentro che iniziano i Moderat”.
E madonna mia i Moderat. La questione era che il loro live è sempre stato molto altalenante, da quelle volte in cui buttano giù tutto a quelle altre volte da “dai, seriamente?”. L’unica scelta giusta che ho fatto quella sera lì è stata andarci senza un minimo di aspettative, e per fortuna. Che si sa che non aspettarsi niente e ricevere tanto è una delle cose migliori che ti possano capitare.
A parte il fatto che se inizi con A New Error vuoi farci proprio malissimo, tra i volumi e il pubblico carico come se avesse ricevuto la notizia che le droghe per la prossima mezz’ora sarebbero state gratis per tutti, la partenza del bassone è stata IL MOMENTO della serata. Migliaia di persone felici come quando i soldati di Silvio fuori dal tribunale avevano capito che Berlusconi era stato assolto, quando poi effettivamente è stato condannato, ma è tutta un’altra storia.
Fanno quasi tutto il secondo disco e Apparat mi ha ricordato che cazzo vuol dire saper cantare. Sono stati il punto più alto della serata, nonostante la scelta nobile e legittima di fare un live che parte carico ai tremila e scende sempre di più nell’intimo.
La Main Room era diventata peggio della stazione Roma Termini nell’ora di punta, gente confusa che si muoveva verso una meta che non avrebbe mai raggiunto.
I cambi palco sono incredibilmente veloci e passa davvero poco a quando Jon Hopkins inizia a far urlare i suoi pad sognanti. Qua la questione è complessa. Bel live, per carità, a parte la parentesi poco comprensibile in cui fa tipo una cover di un pezzo qualsiasi di Skrillex, durata per fortuna non più di due minuti. La questione è che però non riesco a sentire quel di più che un live dovrebbe darti rispetto al disco, suoni precisi, cambi paura, e pezzi che girano esattamente come ti aspetti da uno che nell’ultimo anno ha fatto più live che pisciate. Però manca qualcosa e nonostante l’enorme maggioranza che sembrava gradire come se stesse suonando Gesù Bambino, a me pare proprio che gli manchi quel saltino per arrivare a cento. La storia un po’ m’ha provato e complici le due ore di sonno del giorno precedente capisco che è ora di farsi quella mezz’ora di camminata verso la macchina. All’andata venti, al ritorno trenta, perché non lo so.
È stata decisamente la festa dell’anno, non era una cosa che m’aspettavo. Una serata di quelle che ti ricordi finché campi.
Ho sorvolato sui live visti poco e male, peccato per la scelta di mettere Lone in concomitanza con Hopkins. L’intento era quello di descrivere, più che i singoli artisti, l’enorme aria di festa che si respirava. A cosa servono i report se non a far venire il magone a quelli che c’erano e a far rosicare quelli che sono stati a casa.
Sto già aspettando il roBOt08, sperando che tornino a fare la storia del Vodka Redbull.

 

a cura di Aurora 

Exit mobile version