La musica in movimento al Rock En Seine

Foto di Sara Buonomo

Attraversando Boulogne–Billancourt nella periferia ovest di Parigi, oltre il corso della Senna si arriva al parco di Saint-Cloud, dove un tempo sorgeva un castello residenza dei reali francesi. È la suggestiva location del Rock En Seine, festival in attivo dal 2003 (battesimo di fuoco con nomi come Beck e Pj Harvey), che ogni anno a fine agosto porta una bella ventata di musica internazionale a Parigi. Certo, dall’inizio del nuovo millennio i tempi sono cambiati, e il Rock En Seine diventa poco meno rock ogni anno che passa – per quest’edizione abbracciando la nuova vocazione contemporanea del rap e dell’hip hop. Quel che non cambia è il numero di presenze che ogni anno affolla il parco di Saint-Cloud: le tre giornate del festival hanno attirato circa 90.000 persone (un po’ in calo rispetto alle passate edizioni, ma restano numeri alti). È così che, in questo fine agosto, ci godiamo l’ultima parte dell’estate perdendoci tra i sei palchi di un festival che con la sua line up quest’anno ha spaziato dal brit-pop di Liam Gallagher al rap di Macklemore. Tra un concerto e l’altro c’è tempo anche di visitare gli stand dei partner del festival, e assaggiare l’ottima selezione di prodotti tipici – siano lodati i formaggi. È questo il concept del lungo weekend del Rock En Seine (quest’anno in contemporanea al TOdays Festival): ritrovarsi sospesi per una tre giorni di musica dal vivo, immersi tra gli alberi e il prato fuori dal caos della città urbana. E anche se qualcuno lamenta che il rock sia sempre meno presente, è ancora presto per parlare di una vera e propria metamorfosi o di Trap En Seine: l’anima rock del festival sopravvive grazie a band come The Black Angels, King Lizzard & The Lizard Wizard, o i The Limiñanas.

Foto di Sara Buonomo

Suonare in casa

I festival sono esperienza di scambio: ci riescono – per esempio – integrando nella loro formula una selezione di artisti “nazionali” e internazionali. Tra i francesi (che suonano a casa loro) spiccano nomi come Justice e Charlotte Gainsbourg, che ci regalano due splendide performance arricchite da una scenografia buia ed esemplare. I Justice non sono una sorpresa: la suspence che precede l’inizio del live sale grazie alla fila monumentale di casse Marshall che occupa il palco della Grande Scène; poi è il turno delle luci, che ci cadono fisicamente addosso, mentre i due funamboli francesi arrivano sul palco, fanno partire la musica, e alle loro spalle si illumina la grande croce di bandiera, che fa seguire un turbinio di schermi piazzati ai lati del pubblico che si illuminano e spengono ininterrottamente. Il pubblico esplode, s’infiamma e balla, mentre uno dei gruppi più incendiari dell’elettronica francese (insieme ai Daft Punk) regala uno dei live più belli di tutto il festival. Peccato che contemporaneamente ai Justice suonino anche Bonobo e i The Black Angels, così che una fetta di pubblico si toglie il divertimento di godersi per intero il piacere di tutti e tre i concerti. Ma forse noi – che siamo ancora interessati a variare tra l’electro e il rock – siamo come le mosche bianche perdute nella nuova era hip hop.

Charlotte Gainsbourg è in forma splendida. Non bastassero i giochi di luce e ombre che si incastrano meravigliosamente sul palco, grazie a una serie di figure sospese capaci di dar forma a una bellissima art performance oltre che un intenso show; non bastasse quell’aura magica che si porta dietro dal secolo scorso, quella voce sottile che evoca direttamente il padre e un’intera epopea (anche attraverso la reinterpretazione di quella Charlotte For Ever che tanto fece scandalo); non bastassero gli straordinari musicisti di cui si circonda sul palco, tutti rigorosamente vestiti in jeans; Charlotte ha il talento di farci immaginare una musica che fonde il sound di Jean Michel Jarre e l’atmosfera di Gainsbourg: ovvero due dei migliori talenti della musica francese. Che si sieda alle tastiere, che si alzi nel buio recitando se stessa, restando in t-shirt bianca mentre impazza un vento freddo, Charlotte ci convince che non è solo per caso e per occasione se è sul palco. Il nuovo album Rest ha una produzione esemplare, e dal vivo funziona meravigliosamente: Charlotte è padrona del palco in modo naturale. E poi è la cosa più vicina a toccare il Padre con mano per mezzo del Figlio – altro che cristianesimo.

Foto di Sara Buonomo

Più violento il live dei The Limiñanas, gruppo francese di puro rock che vanta collaborazioni con tal Anton Newcombe dei Brian Jonestown Massacre, e la sua produzione per l’ultimo lavoro Shadow People. I The Limiñanas hanno un pubblico folto di affezionati, che conoscono i pezzi a memoria – e un po’ ci ricordano le atmosfere che nel nostro paese sono capaci di creare ancora personaggi come Giorgio Canali, e quella vecchia scuola che continua a suonare con le sue chitarre e le sue ossessioni – nonostante tutto. Nonostante la grande attesa per i PNL per esempio: perché al primo giorno – lo stesso dei The Limiñanas – il gruppo più atteso dal pubblico di casa è il duo rap francese, conosciuto in Italia anche per aver ambientato il video di Le monde ou rien a Scampia – la periferia di Napoli più amata dalla scena rapper. Naturalmente il live dei PNL fa il pienone (anche se di contro, quella sera, c’è Kendrick Lamar che suona ad un festival hip hop).

Tra conferme, scoperte e delusioni

Le vibrazioni positive al parco di Saint-Cloud arrivano da live come quello di Nick Murphy aka Chet Faker – peccato per la coincidenza con George Fitzgerald che forse penalizza entrambi in termini di pubblico. Se prima di lui i Dirty Projectors avevano regalato una delle performance più deludenti del festival, Murphy rimette le cose a posto – spezzando quell’antica legge-maledizione di Murphy che vuole che se qualcosa può andar male, allora andrà male. Se l’indie-rock-soul di Dave Longstreth e soci regala momenti di noia, l’electro-soul di Murphy-Faker rimette in pace tutti riportando in sintonia pubblico e festival. Non è una scoperta Murphy, ma una bella conferma. Le vere scoperte sono quelle che si fanno al palco Bosquet, il più defilato, nascosto tra cespugli e stand. SOPHIE è una produttrice britannica che ci affascina con la sua elettronica: difficile scorgere i suoi lineamenti nell’oscurità in cui suona, eppure riesce a contendere pubblico alla band australiana Parcels – ovvero i Bee Gees sperimentali del funk. Più queer di SOPHIE è invece una delle più piacevoli scoperte di tutto il festival: Ezra Furnam ha una voce così straordinaria che quasi ti fa dimenticare che sul palco sia vestito da donna – con tanto di collana di perle, gonna, tacchi e trucco sul volto. Come un Perfume Genius meno art-pop e più psych-rock, a Furnam va il premio di artista che conquista dal vivo al primo ascolto. Non male, visto com’è difficile conquistarsi un pubblico sul campo di questi tempi.

Ezra Furnam – Foto di Sara Buonomo

Le chitarre resistono

Breaking News per il 2018: le chitarre suonano e sono ancora vive. Per esempio grazie al sempreverde hardcore degli IDLES, la band punk di Bristol con all’attivo solo due album (l’ultimo, il nuovo uscito Joy as an Act of Resistance), e un numero di amanti del genere e apprezzatori che si fa sempre più consistente. Il live è duro come ci si aspetta, con un Joe Talbot che oltre a muoversi sfrenatamente scatarra più volte, e vomita parole sul pubblico. Da notare che sia gli IDLES che Furman – durante i loro live – lanceranno dal palco una dedica ai migranti, senza scatenare le grandi polemiche che hanno attirato i Pearl Jam in Italia per aver detto qualcosa in proposito. A volte, basterebbe applaudire e godersi la musica. O scrollare il capo, e godersi la musica.

Anche Anna Calvi è splendida armata di chitarra elettrica: sotto un sole blando si nasconde dietro un paio di occhiali scuri e regala un live intenso e seducente – seguita da una band che sa come avvolgere la sua voce e far stridere la sua velenosa chitarra. In questi giorni la Calvi è occupata con l’uscita del nuovo album Hunter, così il pubblico è davvero curioso di conoscere se con il nuovo lavoro Anna Calvi confermerà se stessa o finirà per ripetersi. Con un sapiente mix del suo repertorio e piccole incursioni nel nuovo album si conquista il palco, confermando il sospetto di essere in forma.

 

Veri re incontrastati delle chitarre e del rock sono però i The Black Angels. Intensi, graffianti, con una batterista che porta il ritmo della musica come un’ossessa: si esibiscono nascosti tra i boschi, i furetti del rock psichedelico, e ci colpiscono allo sterno. Peccato ci sia troppo poco tempo per “entrare” nel loro live – solito problema di coincidenze amare. Eppure il sapore che lasciano in bocca è dei migliori. Mentre l’acid rock dei King Gizzard & The Lizzard Wizard sembra troppo antico e vocato al prog per calarcisi dentro, i Black Angels sono ancora perfettamente contemporanei, e aderenti alla realtà: per questo ci piacciono, e vincono la sfida a distanza.

The Black Angels – Foto di Sara Buonomo

Nota a parte per i Cigarettes After Sex, che ormai continuano a trascinare il loro autotune in versione live senza muoversi di un millimetro dalla solita posizione. Le chitarre dream-pop che tanto fanno sognare su disco, creando un bel sottofondo a qualsiasi momento del giorno, dal vivo sembrano restare intrappolate dentro una vecchia fotografia in bianco e nero.

Cigarettes After Sex – Foto di Sara Buonomo

Essere nell’evento

Il concerto-evento è quello che, all’interno di un festival, riesce ad attirare un numero di persone maggiore rispetto agli altri live: a volte spopola addirittura gli altri palchi, ruba le folle, muove le persone. È successo sicuramente con i Justice, ma non è stato l’unico live ad attirare un numero più importante di pubblico. Se abbiamo parlato di una parziale metamorfosi rap di un festival che nel nome continua a portare la parola rock, è perché live come quelli di Macklemore e Post-Malone alla domenica hanno raccolto un’odissea di persone, e vinto nel trascinarle come durante una grande esplosione festiva. Basterebbe fare un giro tra le line up dei festival per vedere come negli ultimi anni sia il rap a dettare tendenza: ci troviamo nella fase – ancora in divenire – di un piccolo cambio di passo; e non è solo una febbre Kendrick Lamar, sta diventando stile di movimento, ed espressione. Un way of life perfettamente contemporaneo. Se Macklemore e Post-Malone rappresentano le voci “bianche” di questo canto generazionale, sul versante black music dobbiamo affidarci invece al live di Stefflon Don, britannica di origini giamaicane che dal palco riesce a trascinare un vero e proprio “effetto ghetto” sul pubblico: ammirandola dalla collina che domina il palco mentre sculetta, si vede una gioventù rapita da movimenti e incitazioni hip hop. (Coinvolgimento che – di contro, non si avverte durante live come quello dell’algida Wolf Alice.)

Wolf Alice – Foto di Sara Buonomo

Altro concerto-evento è quello di Liam Gallagher: ovvero, non eravamo qui per lui ma come fare a non divertirsi ad ascoltare i grandi classici degli Oasis cantati da Liam Gallagher? Siamo umani, e ci emozioniamo – com’è inevitabile se sei cresciuto negli anni Novanta. Così, quando Liam canta Champagne Supernova o Live Forever è automatico anche canticchiare. La sua voce è ancora in forma, e quando esplode in Wonderwall arrivano pure i brividi. In fondo è un momento un po’ storico, ascoltare Liam dal vivo cantare che: “I don’t believe that anybody feels the way I do about you now”. Ci divertiamo, ed è solo un aperitivo degli inaspettati Thirty Seconds to Mars. Il progetto musicale dell’attore americano Jared Leto smuove un impressionante numero di fans in frenetica attesa dell’apparizione di Cristo-Leto: volano grosse bandiere sotto il palco, come se fossimo nel mezzo di un’armata che sta per conquistare un nuovo territorio. E quanto Leto appare sul palco in tenuta da Jesus Christ Superstar, il pubblico perde il controllo: con la vena di uno stravagante animatore turistico trascina i fans e ci gioca; fa salire un bambino sul palco – imbarazzatissimo, ma in fondo felice di essere per un giorno al centro del palco di un festival rock e avere tutti gli occhi puntati addosso; poi si sgola, saluta la città, balla, passa da una parte all’altra del palco, si arma di bandiera, e fa lanciare delle palle colorate sul pubblico. Forse non raggiungeranno l’istrionismo dei Die Antwoord, che in quanto a spettacolo non hanno da invidiare davvero niente a nessuno: tuttavia i Thirty Seconds to Mars conservano la genuinità di non prendersi sul serio. Mentre l’electro-hip hop di Ninja e la voce tagliente di Yolandi Visser regalano momenti da grande circo. Essere nell’evento è anche questo, in fondo.

Brevi viaggi spazio-temporali

Tutto sommato il tempo vola, e passa in fretta: a volta i live sembrano brevissimi, ma ci danno il tempo di sperimentare piccoli viaggi spazio-temporali. Per esempio il set di Bonobo ci lascia esplorare territori e visioni al ritmo della sua elettronica. L’ultimo lavoro del producer inglese, Migration, è un disco che richiede l’urgenza di essere ascoltato staccando il cervello: penetrando “immersivamente” all’interno di quest’esperienza di viaggio spaziale, lasciandosene conquistare. Così la voce evocativa della cantante Szjerden, che accompagna Bonobo in live, si incastra magnificamente alle musiche del compositore britannico: quel che manca è il tempo di lasciar andare il resto fuori. Stessa sensazione che coglie durante il set etlettronico degli irlandesi Bicep: i tempi per una vera immersione nel sound electro diventano davvero stretti.

Bonobo – Foto di Sara Buonomo

Ma non è forse anche questo a entusiasmarci dei festival? La possibilità di rubare attimi e fugaci instantanee, dare forma al tempo per come lo stiamo vivendo. Così, nell’avanzare della schizofrenia delle giornate, sospendersi per qualche giorno nelle atmosfere di un festival ci dà pure il tempo di respirare meglio. La musica – pure lei, sovrana e di sottofondo insieme – si lascia respirare benissimo. Ed è sempre in movimento.


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