Roger Waters – Is This The Life We Really Want?

Era il 1985 quando Roger Waters annunciava al mondo la sua separazione dai Pink Floyd. Per Waters, cui certo non è mai mancata una dose finanche eccessiva di autostima, l’abbandono dei Pink Floyd doveva significarne la fine. Le cose andarono diversamente costringendo il cantante e bassista del Surrey a una battaglia legale per i diritti sul nome della band e a un’altra, più sottile e sotterranea, su chi fosse il vero erede di una delle band più importanti dell’intera storia musicale del novecento, capace di influenzare, ancora oggi a distanza di anni, i migliori musicisti del pianeta.

È difficile, quasi impossibile, immaginare i Pink Floyd più grandi di quello che sono stati, eppure, a pensarci, la band inglese, divisa tra le personalità debordanti di Waters e Gilmour (con Wright e Mason più sullo sfondo) è nata dalla necessità di sostituire il diamante pazzo Syd Barrett perso nei meandri dei suoi personali incubi e nella discesa della malattia mentale dentro a quel viaggio interstellare che aveva tenuto a battesimo una band capace nel tempo di tradire lo spirito iniziale riuscendo a mantenersi ugualmente grandissima. Nella scia luminosa del cappellaio matto di Cambridge, quella dei Pink Floyd è sempre stata una storia attraversata da tensioni e ricordi, slanci verso un futuro lontano e ripiegamenti nostalgici su un passato che non torna. Nessuno dei membri è riuscito in realtà a eguagliare, nelle rispettive opere soliste, la magia che la band era capace di creare in uno studio di registrazione negli anni migliori come in quelli più oscuri, né Barrett prima dell’esilio forzato né la coppia di amici/nemici formata da Gilmour e Waters, le due anime pulsanti sotto la pelle dell’intera discografia del gruppo.

Waters, padre padrone, bassista dal suono inconfondibile, ideologo del gruppo, capace di dargli un’anima politica accanto a quella più squisitamente artistica, ha cercato invano negli anni seguenti di affrancarsi dalla storia della band portando, di fatto, sulle sue spalle la sola eredità del suo capolavoro assoluto, The Wall, riuscendolo a trasformare nel corso degli anni in un vessillo da sventolare nelle occasioni di svolta della storia mondiale a partire dalla caduta del muro di Berlino. Le sue prove soliste, pur interessanti, invece non sono mai sembrate del tutto a fuoco fin dagli esordi di The Pros and Cons of Hitch Hiking e nel successivo (e debole) Radio K. A. O. S. soprattutto.

Miglior sorte di pubblico e critica aveva invece meritato Amused to Death del 1992, nato sull’onda della Guerra del Golfo e, fino ad oggi, ultimo album originale prodotto. Da allora sono passati venticinque anni senza quasi che ce ne accorgessimo grazie alla capacità di Mr. Waters di essere presente, con il progetto The Wall, come dicevamo capace di cambiare forma e di adattarsi, con i tour in giro per il mondo e i dischi degli stessi Pink Floyd che non abbandonano mai le classifiche, e grazie a una straordinaria personalità che mai si è tirata indietro quando c’era da dire la propria sui mali del mondo.

E allora, accanto alla musica, è impossibile dimenticare il peso politico di Roger Waters, le sue posizioni lontane anni luce dal politically correct e da un linguaggio votato al compromesso: nette le sue parole, taglienti i suoi giudizi, eccessivi, pedanti, presuntuosi, affascinanti. Ma è sempre il ritratto parziale di uno dei più grandi interpreti musicali della storia del rock capace di portare (senza mai farlo pesare) l’inquietudine della psicanalisi, dell’inconscio, dei propri incubi dentro testi di potenza visionaria straordinaria, accompagnati da giri di basso inconfondibili e da una sfumatura, un timbro della voce che si riconoscono al primo ascolto, tra spoken word, squarci di melodia e urla che si aprono verso l’alto.

Poche idee ma in compenso fisse, per citare De André, hanno animato la storia personale e artistica di Waters: la scomparsa del padre, seppellito ad Anzio, morto in seguito allo sbarco degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale, l’ossessione per la guerra, il potere, la politica, i mass media, l’informazione. Come dentro a un mondo orwelliano, all’interno di un romanzo distopico, Waters ha attraversato la musica leggera minandola letteralmente di trappole colte, musica e testi come agganci per riflettere, per capire, per provare, almeno, a resistere a una società spaventosamente omologante, destrorsa, assolutista che si cela dietro al benessere capitalista, all’imperativo del consumo.

Is This The Life We Really Want? uscito il 2 giugno per la Columbia Records e prodotto dal sesto Radiohead Nigel Godrich, nasce come urgenza espressiva seguita all’elezione di Donald Trump, nuovo nemico contro cui scagliarsi e incarnazione (perfetta, va detto) dei mali contro cui Waters combatte da una vita intera. Personale e acuta Della Tirannide, aggiornata ai giorni nostri, il nuovo lavoro da solista firmato da Waters somiglia a una poetica e politica elegia che, summa del Waters-pensiero, si fa riflessione amara e malinconica sulla storia politica di questi decenni, sull’evoluzione del mondo occidentale post Seconda Guerra Mondiale, centro nevralgico della vita e dell’abbandono che hanno condizionato l’esperienza umana di Roger Waters.

Is This The Life We Really Want? sembra quasi un testamento, perché è sì analisi, ma anche e soprattutto sguardo, insieme distaccato ed emotivo, sul presente nella scia di una prospettiva del passato recente, mentre musicalmente è omaggio continuo, perseverante e non certo casuale alla storia dei Pink Floyd. È inutile girarci intorno: quello che sotto ogni profilo è il miglior disco mai realizzato da Waters, musicalmente deve tutto all’eredità lasciata dalla sua band, a quell’incredibile incrocio tra psichedelia, rock lisergico e trascendente, alternative, art, space, progressive. C’è The Dark Side of The Moon con l’irruzione di suoni extra musicali, ci sono The Wall e il successivo The Final Cut con le incursioni di voice over raccolte da programmi televisivi, discorsi politici, frammenti sonori mutuati da fonti più disparate e il gioco delle citazioni potrebbe continuare all’infinito.

Sopra tutto è evidente l’eredità da un disco straordinario come Animals, quello della centrale elettrica di Londra sorvolato da un gigantesco maiale gonfiabile.

È a quell’immaginario che Waters sembra tornare, ai Pink Floyd à la fin de la décadence, prima dell’allontanamento di Wright e della deriva autoritaria che lo stesso Waters ha, in fondo, provato per una sempre presente legge del contrappasso. A quel suono fatto di chitarre acustiche e grandi suite articolate ed evocative ben ancorate però, rispetto ad alcune esperienze del passato, a una (seppure molto personale) idea di forma canzone.

Per circa un’ora Is This The Life We Really Want?, a partire dal ticchettio che sottende a tutta la open track When we were young e che rimanda inevitabilmente a Time, ci lascia viaggiare dentro la fantasia di un Waters forse mai così cupo e rassegnato che s’immagina nella struggente Déjà Vu a prendere addirittura il posto di Dio per fare un lavoro migliore, regalandoci un’immagine poetica e spaventosa di un drone che spera di non trovare nella casa su cui è diretto una donna che prepara del pane, che cuoce del riso, o bolle soltanto delle ossa.

Last refugee costruita su una drum machine è la visione, incorniciata da vecchi collegamenti radiofonici degli anni settanta, di una terra devastata da una guerra futura, invocazione a un ultimo rifugiato e, ancora una volta, disperata speranza di un ricongiungimento con la figura del padre. Se Picture That, che richiama le atmosfere di Meddle, costruisce una nervosa visione di prossime distopie, Broken Bones con malinconici accordi di chitarra riflette sulla strada che avremmo potuto intraprendere e non abbiamo scelto (But we chose to adhere to abundance / We chose the American Dream / And oh mistress liberty / How we abandoned thee).

Ma è sicuramente la canzone che dà il titolo all’album e che occupa una posizione centrale a costituire il perno dell’intero lavoro. Si fa qui più forte l’influenza di Godrich che, mentre altrove si limita a produrre, come sempre egregiamente, il lavoro che ha tra le mani rivestendolo per l’occasione di archi sparsi qui e là, riprende invece qui i bordoni di violino che hanno caratterizzato la produzione dell’ultimo lavoro dei Radiohead. Introdotta dalle deliranti parole proprio di Donald Trump, è una delle cose più spietate immaginate e cantate da Waters, analisi cruda e senza via di uscita della vita che ci siamo scelti, delle colpe che ci portiamo addosso, tutti noi nessuno escluso (is because / All of us, the blacks and whites / Chicanos, Asians, every type of ethnic group / Even folks from Guadeloupe, the old, the young / Toothless hags, super models, actors, fags, bleeding hearts / Football stars, men in bars, washerwomen, tailors, tarts / Grandmas, grandpas, uncles, aunts / Friends, relations, homeless tramps / Clerics, truckers, cleaning ladies) tra evocative immagini di dolori, da quelli grandi della storia a quelli di piccola vita quotidiana dentro un’assordante indifferenza (So, every time the curtain falls / Every time the curtain falls on some forgotten life / It is because we all stood by, silent and indifferent / It’s normal).

Bird in a Gale, che sembra uscita dalle pieghe di Welcome to the Machine, richiama la tragedia della morte del piccolo Aylan, il profugo siriano il cui corpo abbandonato giaceva lungo le spiagge di Bodrum in Turchia.

The most beautiful girl è una favola tragica sorretta da un piano blueseggiante che sembra uscito dalle lunghe dita di un Nick Cave e ci racconta della tragica morte della ragazza del titolo (The most beautiful girl in the world / Her life snuffed out / Like a bulldozer crushing a pearl).

Smell the roses con quel basso così inconfondibile è un distillato purissimo del Waters compositore e autore in un racconto micidiale capace di richiamare alla mente Orwell come il Kubrick di Doctor Strangelove, tra visioni apocalittiche ancorate però tragicamente alla realtà (in questo caso il fosforo sui cieli di Falluja).

Le ultime tre canzoni dell’album Wait for her (trasposizione di una celebre poesia del poeta palestinese Mahmoud Darwish), Oceans Apart e Part of Me Died s’intrecciano tra loro, a raccontare di un amore, di un’attesa, di una seppur debolissima speranza, esile, trasparente, di un possibile cambiamento attraverso l’amore.

A quasi settantaquattro anni Roger Waters ci regala il suo disco più bello e più maturo, vero e proprio punto di congiunzione tra la storia dei Pink Floyd e quella sua personale, raccordo emotivo sui temi del passato e del presente. È un Waters che sembra aver fatto pace col suo passato musicale, col fantasma dei ricordi, in parte con i deragliamenti spaventosi del suo ego. Ci ricorda, se qualcuno se lo fosse dimenticato, il peso politico dell’arte, il valore della testimonianza, dell’essere contro, il ruolo che un’artista ha il diritto e, probabilmente in tempi così burrascosi, il dovere di ritagliarsi.

Sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi fa dire al suo Galileo Bertold Brecht nell’opera teatrale: è sicuramente vero ma davanti a un mondo sventurato teniamoci stretti i pochi eroi che non nascondono il viso dall’altra parte.

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