La rivoluzione intima di Cuarón

Patria: tu superficie es el maíz,
tus minas el palacio del Rey de Oros,
y tu cielo, las garzas en desliz
y el relámpago verde de los loros.

R. L. Velarde

 

Alfonso Cuarón torna a casa, nel quartiere di Colonia Roma a Città del Messico per raccontare un intreccio emotivo che si muove su più piani e si condensa in Cleo, una ragazza india impiegata presso una famiglia borghese inaspettatamente in crisi. Tutto convive nelle immagini di Cuarón, emancipazione e sofferenza, distacco e lutto, perfino rivoluzione e repressione. Roma vive di un ritmo poetico e sospeso dai tratti neoralistici, come il canaro di Garrone o l’ingenu della Rohrwacher, nel momento in cui Cuarón decide di estrapolare una narrazione intima dal proprio contesto storico. Ma se Marcello e Lazzaro rappresentano le parti di una società in cerca di rivalsa, di individui che vivono nel substrato metropolitano o nel bel mezzo del latifondo toscano, in Roma ritroviamo la borghesia, troppo intenta a vivere i propri drammi mentre la rivoluzione che sconvolgerà il Messico degli anni ’70 semplicemente accade nel mondo esterno, caratterizza lo sfondo per un fatto cronologico – l’infanzia e l’adolescenza di Cuarón stesso – più che per un fatto politico. Questo non significa, però, che Roma sia privo di una qualche ragione politica. Lo è nel suo senso più atomico, descrivendo la rete di microcosmi e di realtà che circondano alcuni eventi storici, è l’occasione per raccontare i meccanismi e gli infiniti piani con cui la lotta alla sopravvivenza si struttura in ognuno di noi, un campo di possibilità tanto sterminato quanto lo spazio di Gravity. Non è la prima volta, del resto, che Cuarón applica questo genere di estraniamento storico per concentrare lo svolgimento del proprio film sulla narrazione individuale. Ne I figli degli uomini accade con il regime distopico, del tutto estraneo rispetto alla lunga trattazione che ne fa P. D. James all’interno del romanzo originale. Come Theo Faron anche Cleo è un personaggio trasparente ed essenziale cui si guarda attraverso e che, paradossalmente, riesce a coinvolgere ancora di più lo spettatore che, non potendo contare su una biografia dettagliata, può solo vivere il tempo con cui crescono e si evolvono i personaggi stessi. Quei ponti, che il cinema deve necessariamente compiere, anche solo per scontare il debito col proprio passato, sono come le eredità che le mamas, come Cleo, hanno lasciato nelle infanzie dei Cuarón, adolescenti di quel Messico in fiamme.

 

Il ruolo di predestinato, del resto, Roma, ce l’ha avuto sin da subito, come un giovane calciatore con lo spiccato senso per il dribbling che esalta i tifosi per le sue qualità da futuro campione. Se ne è parlato così tanto, per quella scelta di non passare per i cinema, poi trasformata in un periodo ristretto di proiezione, che vederlo fallire sarebbe potuto essere quasi un sollievo. Invece Cuarón si avvicina alla perfezione, trasforma il passato affidando al bianco e nero il compito di restituire un’epoca tramontata senza richiami nostalgici, rinnovandolo attraverso il lavoro artigiano di uno scultore che crea nuova vita dalla materia instabile che caratterizza la propria biografia. Mentre seguiamo Cleo affrontare una gravidanza indesiderata, e il costrutto famigliare di Antonio e Sofia andare a pezzi, il tratto stilistico di Cuarón si fa ancora più marcato, rimanendo tutto sommato in disparte. È la fotografia, con questi spazi sospesi e ariosi, a costruire il motore dell’azione, di qualcosa che sembra poter accadere e stravolgere tutto. Un’impasse imprevedibile che, nella maggior parte dei casi, si risolve in negativo, lasciando intravedere come, ancora una volta, la lotta alla sopravvivenza sia un fatto del tutto privato, a cui ogni personaggio dà una consistenza e un’interpretazione, fino alla necessaria purificazione dal proprio dolore. Per Cleo sarà affrontare un nuovo momento di crisi, per Sofia, ormai prossima al divorzio, distruggere la Ford dell’ex marito.

 

 

Il vero successo di Roma, tuttavia, si comprende solo a posteriori, una volta abbandonato il grado di coinvolgimento emotivo. L’importanza di un cinema sociale, per quanto biografico o legato a un tempo ormai passato, è lo specchio più efficace per tornare a parlare delle persone, anche durante un cortocircuito storico. Cuarón riesce nell’intento di narrare una storia a partire dagli ultimi in maniera intima e delicata, ripercorrendo silenziosamente le tracce del suo passato, come un pegno o un’ultima lettera alla patria dorata che sarebbe potuta essere ma, invece, ha perduto.

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