SBTRKT – Wonder Where We Land

Accantonate molte delle aspettative che avevate nei confronti di questo nuovo album, mettete da parte l’idea che il primo album vi aveva lasciato dell’artista e del suo lavoro e solo una volta ripulita la mente da qualsiasi idea precostituita iniziate pure a godere di questo secondo album, Wonder Where We Land, che, a tre anni di distanza dal primo, SBTRKT (aka- Aaron Jerome) propone al grande pubblico.

A differenza di SBTRKT, l’omonimo album d’esordio come Subtrakt, che riesce a catturare abbastanza facilmente il favore di una platea di persone molto ampia e creato appositamente per accendere i riflettori su una nuova proposta artistica, questo secondo album si propone come un lavoro più complesso, un’opera intimistica che richiede all’ascoltatore un approccio maggiormente curato. La vera pecca è che forse si è perso un po’ lungo la strada il senso della misura dal momento che troppi sono stati i singoli in anteprima rispetto all’album e che inevitabilmente hanno scemato molto di quell’ hype che si era creato; troppe sono le collaborazioni che si rivelano un aspetto bifronte poiché se da un lato mettono in risalto la grande capacità dell’artista di lavorare con un parterre di artisti molto vario dall’altro creano uno spazio fortemente disomogeneo e dispersivo.

Tra i nomi che accompagnano SBTRKT in questo viaggio spicca tra tutti Sampha, che, come nel disco precedente, lavora a molti dei brani dell’album e subito l’alchimia di una collaborazione ben radicata si palesa. In Wonder Where We Land, brano che presta il nome all’intero album, abbandonano le logiche che li accompagnava in brani come Hold On e creano una traccia splendida dove fanno da pilastri la calda voce di Sampha, il pianoforte (probabilmente frutto dell’esperienza di tastierista di quest’ultimo) e sample dal tenuo sapore sci-fi. Forse dovuto alla proficua collaborazione tra i due artisti o alla crescita personale di Sampha, legata all’uscita del suo al progetto solita (Dual / Young Turks 2013), ma i brani in collaborazione con quest’ultimo godono di una naturale maggiore fluidità e questa si palesa tutta nel passaggio da brani come Temporary View dall’impronta 2-step o come Gon Stay, dove un interessante giro di basso molto funky e un taglio soul molto morbido la rendono da padroni, a brani come If It Happens che pretende una collocazione a se stante, forse troppo a se stante nella dimensione di questo album. In continuità con il mood funky, uno dei brani più divertenti e più riusciti dell’album si colloca sicuramente NEW YORK, NEW YORK interpretato vocalmente da un magistrale Ezra Koenig, vocalist dei Vampire Weekend, e dove la definizione più corretta per questo brano è nientemeno che quella data dallo stesso SBTRKT: “la quintessenza di New York” . Le atmosfere cambiano diametralmente e diventano più cupe ma non meno entusiasmanti quando entrano in gioco artisti come A$AP FERG e Raury, dove SBTRKT è perfettamente in grado di creare involucri perfetti per le liriche hiphop di questi due artisti e Higher ne è la prova su tutte.

Non ci sono prove fallite in quest’album ma prove che non convincono si. In quest’ottica un grande spazio occupano due brani. Il primo è Osea il brano con Koreless (nuova promessa del panorama post-dubstep), dove ci si aspetta durante tutto l’ascolto che accada qualcosa ma quel qualcosa non accade mai e il brano termina lasciando veramente l’amaro in bocca. Il secondo brano che non convince è Look Away con Caroline Polachek, voce dei Chairlift, dove il binomio di artisti riesce a coinvolgere si il pubblico in un’atmosfera paranoica grazie anche all’uso frequente di loop ma il brano non si lascia digerire facilmente ad un primo ascolto e con una voce così a disposizione probabilmente si poteva ottenere un risultato finale di gran  lunga migliore. Molto interessanti le opere soliste come Lantern che mostrano quanto è rimasto inespresso nel panorama post-dubstep e le numerose strade che questa corrente può ancora percorrere anche se appaiono un po’ ruvide e non riescono ad incidere veramente nel contesto globale dell’album.

Se come diceva qualcuno “La vittoria della vanità non è la modestia, tanto meno l’umiltà, è piuttosto il suo eccesso” questa volta Jerome ci è andato veramente giù pesante creando un lavoro che rimane per alcuni aspetti ben fatto, che regala un ascolto distribuito su più livelli anche all’interno di un’unica traccia, ma che poteva essere l’opportunità per creare un lavoro di pregevole fattura e per rafforzare una fiducia che si era ben creata con il primo album. Di un’occasione sfuggita dalle mani resta sicuramente il merito di essersi preso il rischio di fare un passo in più e di aver osato un lavoro dalle grandi potenzialità.

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