Scavare e la poetica dell’odio

Scavare, il romanzo di esordio di Giovanni Bitetto (uscito per Italosvevo Editore nella nuova collana Incursioni), è un’opera di cesello, scritta in maniera sapiente e accurata, ben consapevole del ruolo della scrittura e dei suoi limiti. Il gioco è un po’ questo: un’unica voce spadroneggia, si smentisce, si diverte a far leva sull’unidirezionalità del racconto, moltiplica le versioni; dalla provincia sterile e tossica alla Bologna piena, morbida e svenduta, fino alle carriere parallele dei due personaggi, la voce narrante è sempre una, non racconta ma esercita la sua parola (perché quello che mette in atto è un vero e proprio esercizio di potere).

Scavare è un dialogo in assenza. Chi parla è uno scrittore; chi ascolta, un interlocutore silenzioso, è un filosofo marxista, suo amico deceduto da poco. L’amico è dunque una proiezione immaginaria, psicologica, dello scrittore che vuole porgergli l’ultimo saluto rievocando la storia del loro rapporto. Si tratta, in fondo, di un memoir a due vite, un’elegia con volti e nomi censurati. Il romanzo può esser inteso come un lungo martellare sui ricordi, pochi perni (la famiglia, il lavoro, l’arte) attorno cui costruire verticalità, stuzzicati tramite l’egemonia di una voce narrante dalla lingua puntuta, che picchetta sulla memoria, sul filosofo e sul narratore in maniera impietosa, senza concedere tregua a nessuno.

La verbalità riempie lo spazio della pagina e alza la polvere della fossa: le cose accadono nel momento in cui vengono pronunciate, consentendo al narratore di giocare a scacchi da solo. Accompagnato dal coatto silenzio del filosofo, lo scrittore prende il posto dell’amico con una certa compiacenza, parla al posto suo, così come al posto di (quasi) tutti, dice e disdice. Ma a essere smascherati sono sempre gli autoinganni del narratore, costretto a questo gioco di aller-retour di punti di vista. Dall’altro lato, l’integrità del filosofo rimane sempre preservata, ciò che ci resta è la non-esposizione, la tendenza a ponderare in silenzio mentre l’altro si dimena. L’Altro come calma e pienezza. Anche per questo la narrazione si fa biliosa, cerca di affondare in una radice di senso, ma va sempre a vuoto, rinvigorisce l’agonismo in fondo al quale resta solo la soddisfazione di poter “dire al posto di”:

È giusto quindi che approfitti dell’unico vantaggio in mio possesso, il tuo silenzio, la possibilità che ho qui stanotte di raccontare la mia versione, l’unica ancora in grado di essere narrata da voce viva. Tu sei muto, hai lingua di morto e occhio asciutto, io vivo e fremo e ti ricordo cosa significa avere un corpo. Il prossimo sole sorgerà sulla mia gola secca, entrambi allora sapremo chi di noi è stato condannato.

 

Ma questo biografismo è anche storia assoluta, leggenda, il palcoscenico di una farsa in cui ogni personaggio gioca un ruolo archetipico (il padre, la madre, il figlio) inserito in un contesto socioculturale netto: come se ogni personaggio portasse appuntato sul petto un cartellino indicante non nome e cognome, ma uno status preciso, e il dispiegarsi di una banale meccanica scaturita da questo. Per questo Scavare sta all’incrocio tra lo sconforto percepito a causa di assoluti archetipici ineludibili e un forte determinismo sociale (non proprio storico). Questa contestualizzazione diventa il bisturi con cui il protagonista disseziona la materia verbale e reale, e allo stesso tempo il pungolo con cui alimenta la sua ossessione raziocinante; se la condizione psicologica, quasi da parabola o da mito greco, rappresenta le fondamenta che il narratore non riesce mai a cogliere del tutto (a differenza dell’autore), il sostrato socio-culturale diventa strumento di analisi:

Quanta luce nella visione. Il padre giace immobile, la tumefazione sull’occhio gli risucchia il volto, la testa grigia è piegata sulla spalla, la bocca semiaperta, la bava gorgoglia, è l’unico segno di vita. Gli aghi si insinuano sottopelle, gonfiano i tessuti e scorticano i polsi, le braccia si macchiano di viola. Il padre canta il ritmico peana della macchina, la voce è stridula, a lui risponde il respiratore, sul petto si accumula la pressione, poi esplode il singhiozzo, assistiamo a uno spettacolo forzato. […] Tutto questo lo hai provato tu stesso, amico: anche tu nell’ora del lutto ti sei sentito oggettivato, ricondotto al puro dato biologico, siamo figli dei nostri padri e nessuna delle nostre astrazioni potrà recidere quel legame dannato.

Ma poi:

Ai funerali esibii la giusta gradazione di dolore, gli occhi vitrei per accogliere frasi ipocrite. Tutti approvarono la mia compostezza, volsero lo sguardo verso il ragazzo che si affacciava dal pulpito. Tenni il mio discorso, evocai i dogmi di una religione che non avevo mai rispettato. Lasciavo fluire le parole di commiato, scrutavo la platea per misurarne l’effetto.

Il filosofo, integro e impermeabile, questo Altro lacaniano, è un’entità che il narratore cerca di penetrare (e forse l’unico e solo rapporto sessuale tra i due personaggi può esser considerato una performance plastica di un conato tutto mentale); ogni colpo assestato a vuoto è un rullo di tamburi di lotta, un ricaricare il colpo in attesa dell’affondo. Il filosofo è una presenza solida e rotonda che, con la sua sola presenza, scoperchia le spaccature interne del protagonista, piccole crepe prefabbricate. Scavare potrebbe essere una grande opera letteraria già solo per questo: l’analisi di un gioco di dominio tra una spiccata sensibilità e un totem, tra una persona e un ideale. In questo quadro, l’atto di scavare è piuttosto un tentativo di rinsaldare una personalità slabbrata, un ricucire quel foro che è anche il punto cieco attorno a cui ruota ciascuno di noi: il narratore si dimena contro il reiterarsi di se stesso, contro quel nocciolo personale che lo rende un “adatto” disgustato. Da un lato la compiacenza di vincere, di farcela, di soddisfare la fame di autoaffermazione alimentata dall’agonismo; dall’altro la consapevolezza di partecipare a un gioco fittizio, la percezione di non poter mai raggiungere il grado di Realtà manifestato dall’amico.
Come ci si rivolta a questa dinamica di impotenza? Alla sfericità dell’altro e all’impossibilità di vedere il proprio punto cieco? Il narratore applica la sua strategia: nel distruggere riscopre l’atto, l’odio inteso come esclamazione dell’«io esisto» («in realtà mi consumavo di rabbia, e i brandelli di me si raggrumavano nuovamente nell’azione della penna»), la letteratura come negazione e masochistica ipertrofia dell’ego:

Fui tanto immodesto da ridurmi a personaggio omonimo, un giovane esaltato, il solito pagliaccio detestabile. Soliloqui travestiti da dialoghi, descrizioni minuziose che rivelavano il perenne rimirarsi allo specchio, invettive come atti di masochismo, su ogni capoverso si stampava il mio sguardo: non cercavo di immedesimarmi in chi avrebbe letto, mi impegnavo ossessivamente nel guardare me stesso. […] Dovevo fabbricarmi un nuovo avversario, con quel delirante esercizio di stile cercavo di ritrovarlo in me stesso, spezzettare l’ego fino a riconoscere l’ennesimo antagonista.

A questo punto una grande profondità psicologica scaturisce dalla lente dello stereotipo (determinismo sociale) e del tipo (parabola o archetipo). Lo scrittore stesso, il personaggio, vuole essere uno stereotipo, vuole essere “adatto” (che vuol dire anche “vincente”), ma allo stesso tempo vuole esistere al di fuori delle meccaniche di reiterazione dell’identico, vuole fuggire la propria banalità. È la faccia tumefatta dell’agonismo: l’affermarsi del desiderio di vittoria, ma a patto di adeguarsi alle regole di un gioco disprezzato:

Il travestimento è stato per molto tempo l’orizzonte cognitivo in cui sono riuscito a trovare me stesso. Anche quando ho abbracciato l’ambizione, mi sono riconosciuto in un paradigma banale. In quelle storie non c’è un grammo di verità, o meglio, c’è il peso del desiderio, di come volevo che andasse, ma tutto è sepolto sotto strati di finzione, inquinato da parole deformi. Avrei dovuto strangolarle al primo vagito, collezionare feti in formalina per ricordarmi della grandezza che ho accarezzato nel tentativo di narrarmi attraverso la menzogna.

In questo scarto tra l’adesione a uno stereotipo e la coscienza dispiaciuta di questa adesione, sta tutta la sofferenza del narratore. La consapevolezza di essere un pezzo di produzione “industriale” lo rende superiore alla media, ma questa superiorità non produce mai unicità, e quindi non risolve il dissidio; dall’altro lato, la comunione delle sofferenze, l’empatia, l’uscita da sé spezza la solitudine, ma ostacola il sentimento di unicità che continuamente cerca di costruirsi. È un cortocircuito senza scappatoie.

Con grande eleganza stilistica e prepotenza argomentativa, Giovanni Bitetto è riuscito a delineare un’etica di riabilitazione dell’odio, una riduzione dell’intera cultura occidentale a stereotipo che riflette su se stesso; è riuscito a reclamare con violenza l’urgenza di una critica ideologica, sociale ed estetica; e a livello letterario, è riuscito a dare profondità a una voce narrante ridotta a maschera che continuamente rivolta se stessa, destinata a scoprire, con sofferenza, le sue due dimensioni: il voler essere e la negazione del suo voler essere.

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