Se anche i ministri lasciano

Davanti a certi avvenimenti si rischia di usare le stesse parole, non tanto per mancanza di fantasia quanto perché succedono effettivamente le stesse cose da vent’anni. E, allora, la storia si ripete. Dopo le elezioni, una vita per formare un governo, scegliere a chi dare i posti privilegiati, un ministero di qua, uno di là, e trenta secondi per buttare giù tutto, di solito sempre quelli che si trovano nei posti migliori, ma che vogliono di più, ti tradiscono. E poco importa che sia per una tattica politica, per un tentativo di guadagnare visibilità o per salvarsi da un processo. Sono giochi di una politica che cerca di smarcarsi dalle responsabilità, frutto della sua essenza carrieristica, in cui se un’azienda fallisce, meno ne sei coinvolto più possibilità hai di essere preso di nuovo o da un’altra azienda. E, così, è andata anche questa volta. L’azionista di rilievo, che quando perde non perde mai davvero, stacca la spina e tutto sembra andare, di nuovo, in fallimento. Forse perché a quell’investitore bisognava togliergli questo potere prima, non dargli ascolto ed evitare di cadere in una trappola che era già stata prevista da tempo. Ma riflettere sul passato ci hanno sempre detto non sarebbe stato necessario perché gli errori erano stati fatti tutti, ed era impossibile ripeterli. Eppure eccoci qui, di nuovo, con un copione già scritto in cui gli stessi interpreti ti fanno capire che ci hanno fregato anche questa volta.

Che la crisi fa comodo a tutti per erigersi a salvatore, a profeta del benessere, a moralista del «Ve l’avevo detto», gli unici a cui non fa comodo sono quelli che ci stanno morendo in mezzo. Mentre le orecchie che gli danno ascolto ancora si lasciano abbindolare dalle false alternative che propongono i partiti, ma come dargli torto. E, i movimenti popolari, ce li lasciano per credere che tutto sia ancora libero. In politica, negli ultimi anni, si fa appello alle coscienze con parole che neppure più trovano un significato. Responsabilità, saggezza, sacrificio, bene del paese. E, poi, c’è ancora chi ti giudica male se decidi di andartene. Ormai non si tratta nemmeno più della necessità di provare nuove esperienze o della stanchezza nel vedersi superati da tutti i paesi del terzo mondo, ma si tratta di una questione di sincerità, in cui la gente ormai non ne può più di essere presa in giro, la stessa sincerità che manca agli esponenti del governo che, invece di scendere in piazza a dircelo in faccia, si rispondono da un’emittente televisiva all’altra. Anche le facce, quelle del «Mi faccio carico dei mali del paese», sono diventate maschere che a rotazione si scambiano di ruolo. È stato così per Monti, scomparso dopo le elezioni in cui non si sarebbe dovuto candidare, sarà così per Letta. L’unico che non passa mai è Silvio Berlusconi, in grado di muovere un paese a suo piacimento, così tanto che pure l’opposizione sembra essere fatta in modo da supportarlo. Mentre gli insoddisfatti continuano a riempire le schiere di un dissenso cieco e frustrato, ancora senza capo e senza direzione.

La dimissione dei ministri è un fatto grave che oltre ad essere personale, di gente che come cani seguono i capricci del padrone, è anche nazionale. I ministri non lasciano. Le coppie di fidanzati si lasciano, i paesi afflitti dalla povertà si lasciano per un futuro migliore, le mance si lasciano alla cameriera piuttosto simpatica della pizzeria sotto casa, i ministeri e le cariche istituzionali no. La delusione diventa rabbia e la rabbia di un paese non è mai l’alternativa giusta ad una macchinazione politica, come non lo è l’abbandono o la violenza. Ma, entrambe, per quanto male possano fare sono espressioni di un disagio di cui la politica è chiamata a rispondere. E cosa ci diranno? «Scusate, ero ministro fino a due giorni fa.» Per poi ripresentarsi alle prossime elezioni con nuovi motti che lasciano intendere che ancora una volta ci saranno loro a riderci alle spalle. E, allora, mi sembra di poter comprendere chi vota M5S, ma la stanchezza e la sfiducia sono le risposte che preannunciano momenti ancora più terribili e di cui nessuno sembra ricordarsene. Ma la situazione è quella, governi inconcludenti, mancanza di lavoro, famiglie e aziende sul lastrico, e non c’è nemmeno una guerra a cui dare la colpa. Il fatto è che, a forza di dare colpe a qualcuno, non ci si rende conto che il paese affonda comunque e ad annegarci sono sempre gli stessi. Nel disincanto, e nella disperazione, non si coltivano sogni, si cercano giustificazioni perché non sono stati realizzati e un motivo per non darsene la colpa. In un paese senza colpevoli anche l’innocenza non esiste più.

Mi piace pensare che, dopo tutto questo, non si evocheranno frasi come «Scelta giusta e necessaria», «Il paese (o l’Europa) ce lo chiedeva», «L’aumento dell’Iva è colpa del governo Letta, che ha reso necessario il nostro abbandono». Ma so già che rimarrò deluso ed è, probabilmente, la peggiore sconfitta di tutta questa politica.

 

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