Se la generazione Bataclan si scopre fragile solo ora

Annie Harada Viot/Flickr

Ho frequentato tante aule, mi sono seduto su tanti seggiolini diversi che a volte mi ferivano la schiena e rendevano complicato lo stare attento, le pause pranzo che non ti permettevano di seguire le lezioni e quelle troppo sforzate e con troppi bicchieri fino ad alzare la bandiera bianca. Abbiamo frequentato mille posti diversi, tanti anche più di una volta, sentito concerti o soltanto bevuto una birra, spesso di pessima qualità. Aspettavamo il weekend, che a volte si protraeva per settimane intere, solo per trovarci in tanti nello stesso posto, raramente ci siamo scambiati due parole o abbiamo fatto nuove conoscenze. Ricapiterà, ci siamo detti, non era la nostra serata. Non che cercassimo grandi amori o amicizie fraterne con cui prendere lo zaino e partire. No. Era una parte principale del gioco, che conta stirarsi le camicie, passare davanti allo specchio e cercare la giusta situazione capace di renderci più sicuri di noi stessi, pensando che quello fosse un buon incipit per tutte le storie. Pensavamo che se non avessimo conosciuto qualcuno almeno, ci saremmo riusciti a difendere. Quante risse abbiamo solo sfiorato, lanci di bottiglie, vetri rotti calpestati, corse a perdifiato nei parchi, solo per sfuggire a un presentimento. Serate che ognuno prende come vuole, con o senza adittivi di qualunque genere. Bastava poco per sentirsi forti, o padroni per una notte e, quasi sicuramente, continueremo a farlo.

Le cose sono cambiate da quando abbiamo sentito pronunciare la parola guerra così vicino a noi, o quando ci siamo resi conto che poi non eravamo davvero così diversi da quel concerto sotto le bombe. Ci dovevano essere fuori quelli che fumavano, la ragazza che per un secondo ti è sembrato ti guardasse quando era solo un riflesso condizionato, la necessaria idratazione. Forse perché non c’è bisogno sapere di che nazionalità è il proprietario del tuo club e nemmeno che genere di tour abbia fatto la band per cui hai risparmiato i soldi. Era lecito pensare che certe cose restassero nel passato, di quando ancora Marlyin Manson spaventava le madri e gli psicologi. Dopotutto è solo musica e i vinili al contrario gracchiano, non danno messaggi. Lo pensavamo anche dei libri, dopotutto. Quando il bagno di sudore si è trasformato in uno di sangue e terrore abbiamo sentito freddo, per davvero. Era l’unica arma di difesa, quella più istintiva, che potesse uscire dal nostro corpo. E poi c’è stata quella lama, dentro alle nostre ossa ancora giovani, a spezzare quella piccola certezza. È durata un attimo, come quel brivido, abbiamo iniziato a dimenticare e a riprendere la nostra vita. Autodifesa darwiniana, non è il più forte a sopravvivere ma solo il più fortunato, è sempre e solo così. Non siamo emotivamente preparati alla perdita, non lo è nessuno. Non lo siamo nemmeno per renderci conto di quello che è successo. È un colpo inferto a un corpo già sanguinante ma che perdura nel suo voler sopravvivere, perché è l’unica cosa che abbia davvero senso.

Je l’ai vue ce matin. Enfin, après des nuits et des jours d’attente. Elle était aussi belle que lorsqu’elle est partie ce vendredi soir, aussi belle que lorsque j’en suis tombé éperdument amoureux il y a plus de 12 ans. Bien sûr je suis dévasté par le chagrin, je vous concède cette petite victoire, mais elle sera de courte durée. Je sais qu’elle nous accompagnera chaque jour et que nous nous retrouverons dans ce paradis des âmes libres auquel vous n’aurez jamais accès. (Antoine Leiris)

Contenitori svuotati della loro identità, se potevano attaccare il potere e creare dei simboli l’avrebbero fatto. Hanno deciso di attaccare la vita, quella più incolpevole e indifesa, soltanto per dimostrarci che non siamo così forti come credevamo. Non lo siamo mai stati, solo che ci siamo opposti a questa realtà. Abbiamo passato troppi anni a coltivare quello che credevamo fosse importante per noi stessi e lasciato agli altri poche briciole. Anche il nostro dolore, se l’abbiamo sentito, è stato soprattutto cieco. Dettato, per la prima volta, da un contesto che conoscevamo. Siamo quelli che si devono spostare per conoscere la povertà, o anche solo per realizzarci che è soltanto uno dei tanti modi con cui si articola, si tratta di costituzione preservata e, spesso, di occhi che non si collegano con gli organi giusti. Non esistono morti diverse ma è anche vero che il grado di coinvolgimento, inevitabilmente, possa far passare questo messaggio. Lasciatecene rendere conto, prima che sia troppo tardi. Abbiamo avuto ogni cosa quando, probabilmente, ce ne sarebbe bastata la metà per capire che il nostro modo di contare i giorni era solo un countdown necessario. Non siamo preparati a rispondere alla guerra, lo siamo soltanto per vedere succedersi i giorni senza capirne il vero motivo, con progetti che funzionano raramente, e fortunato chi riesce ancora a farne, senza lasciarsi fregare dalla morale cinematografica. Questa è la debolezza, creature immature o solo non ancora pronte ad aprire gli occhi e guardare al di là, dentro questo medioevo che sembra non finire più.

Se cercavamo modi per riconoscerci, derive artistiche in grado di raccontarci come avevano fatto prima, ci siamo ritrovati, ancora una volta, definiti dalle azioni di qualcun altro. Sofferenti corpi stanchi che subiscono ogni cosa e, da quel pugno nello stomaco, trovano una ragione per sentirsi vivi, una ragione per rispondere, per raccogliere quell’inconsapevole traccia lasciata dagli ultimi martiri di una violenza che non ha spiegazione. Le strade di Parigi sono svuotate, il Bataclan rischia di scomparire mentre le nostre vene ancora spillano sangue. Se è stato qualcuno a toglierci la nostra gioventù siamo ancora in tempo per ricostruirla, proprio perché qualcuno non potrà più farlo, in Francia come a Beirut e in tanti posti ancora. Se c’è una guerra in atto non è quella dei poteri forti, non è quella dell’Isis che uccide i propri fratelli. È una guerra più sottile, che fa vittime senza identità, ogni volta che qualcuno cede alla paura o alle facili risposte, quella che i kamikaze mettono solo gli occhi di tutti. Stiamo tutti perdendo da quando abbiamo lasciato il posto a qualcun altro, da quando abbiamo preferito altri modelli senza scoprire il nostro, da quando gli scrittori ci hanno abbandonato e non troviamo più le parole. Se volete fare qualcosa di davvero rivoluzionario smettete di credergli o di adeguarvi. Se davvero quei poveri ragazzi potevate essere voi fate in modo che queste cose non possano ricapitare. È l’unica cosa che ci permette di salvarci, non lasciare che quel sangue venga dimenticato e che, nell’ignoranza e nel facile odio che producono, un terrorista possa vincere. Si tratta di scegliere da che parte stare, nell’unica guerra che possiamo davvero permetterci.

 

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