Sguardo di donna

Nell’ampio panorama della letteratura contemporanea l’orizzonte animato dallo sguardo delle scrittrici si fa sempre più importante. Per fortuna – e a differenza di tempi non così lontani – le scelte editoriali approdano a una proposta sempre più ampia e varia; ecco allora che femminile finisce con l’essere soltanto un aggettivo come un altro e lo sguardo di donna che si propone in questa raccolta – di quattro libri e delle loro autrici – sta proprio a dimostrare l’assoluta trasversalità dei possibili angoli di osservazione sul mondo. Quattro donne di età diversa, quattro approcci personali alla scrittura, quattro nazioni differenti: il Cile, la Scozia, l’Irlanda e una cultura orgogliosamente ibrida – quella delle ex colonie anglo caraibiche – come a comporre uno degli innumerevoli affreschi che la letteratura oggi può offrire.

Ad aprire idealmente questa rassegna è Souza della cilena Nina Avellaneda, pubblicato in Italia da Edicola Ediciones (2022, traduzione di Marta Rota Núñez).

Romanzo esile, sottile – nelle dimensioni come nella forma – che gioca con i temi dell’altro – il doppelgänger – e quello della memoria, Souza è un oggetto strano come il protagonista che racconta: un operaio trentenne che posa moquette per conto di un’impresa edile e fa dell’amicizia con una donna più grande di lui, Luiza – che dopo “anni di decadenza” si ritrova “al tramonto di un’attrice senza personaggio” – la sua sola ragione di timida felicità.

È un gioco di specchi questo romanzo d’esordio della scrittrice classe 1989, fin dalle prime pagine, quando una narratrice che più che omnisciente – che appare quasi come una maga, un’indovina capace di modificare i destini dei suoi personaggi – s’imbatte in metropolitana nel doppio di Jorge Luis Borges; incontro che assume, più che i contorni di un omaggio, il ruolo di una filigrana che di Souza riesce già a dirci moltissimo.

Vedendolo camminare per casa, scalzo e senza fretta, lei aveva sentito che la vita poteva essere piacevole, e così l’aveva lasciato andare

Quella di Nina Avellaneda in Souza è una narrazione onirica e frammentata. Tutto: la voce della narratrice, l’apparizione di Borges, i doppi che Souza incontra – suo e di Luiza – il ritmo pacato che pure vede alternarsi voci, sensazioni, umori, lettere, rimanda a uno spostamento continuo, a un glitch di sistema, al pulviscolo di albe che seguono notti insonni, quando la stanchezza sfiancante altera i sensi e trasforma l’estrema sensibilità in una narrativa immaginifica e fantastica. In una Santiago urbana e periferica, tra case vuote da sistemare, finestre al cui interno osservare la vita perfetta degli altri, Avellaneda dipinge con tinte acquerellate – quasi impressionistiche – i silenzi quotidiani, le vite minute di un uomo e di una donna già perduti. Tramonti azzurrini che lasciano spazio soltanto a piccoli contatti ché oltrepassare una linea sarebbe forse già tanto per le loro paure. Quella che lega Souza e Luiza è qualcosa di più di un’amicizia, non è forse amore ma certamente è un riconoscersi in mezzo a una folla di volti; è in qualche modo – ed è un modo triste – l’opportunità di rinunciare a qualcosa di bello.

C’è un costante filo sospeso tra la realtà di Souza – concreta, fatta di edifici e fondamenta – e quella di Luiza e del suo teatro, capace di dare vita a un dialogo silenzioso fra due vite separate che in un modo segreto provano a trovarsi, cercando nella distanza che li separa dall’altro quel riconoscimento che nel quotidiano manca a entrambi. Souza è un ragazzo non ancora uomo che osserva i volti delle persone per strada provando a capire il segreto di ogni possibile diversità. Luiza, in una fuga da se stessa verso illusioni che restano tali, un personaggio ancora più complesso che – dentro di sé come nei ruoli che interpreta – prova a rintracciare i frammenti di un  senso che possa non farla andare in mille pezzi. Un esordio che rimane impresso nella memoria dei lettori grazie alla capacità di restituire con forza immensa aspetti precisi dei suoi personaggi per poi lasciarli avvolti dalle nebulose vicende di una vita quotidiana. Quasi che fossero persone di cui conosciamo il nocciolo più profondo ma che saremo costretti a osservare da lontano per il resto della nostra vita.

Ben altro stile è quello che caratterizza invece Isole dell’abbandono. Vita nel paesaggio post-umano (Edizioni Atlantide, 2022, traduzione di Ilaria Oddanino) della scozzese Cal Flyn.

Dodici luoghi sparsi per il mondo, diversi tra loro eppure accumunati da processi di abbandono e riconquista da parte della natura: dai bing del Lothian occidentale in Scozia – enormi colline formate dagli scarti della lavorazione di scisti bituminosi – a Varosia, spettrale quartiere maltese di Famagosta disabitato dalla metà degli anni settanta in seguito agli scontri tra greci e turchi; dai kolchoz sovietici – oggi al centro di una spontanea riforestazione – alla zone rouge di Verdun in Francia. Da Plymouth, capitale dell’isola di Montserrat nelle Piccole Antille, ormai città fantasma in seguito a una serie di devastanti eruzioni vulcaniche, al Lago Salton in California, traccia della grande inondazione del Colorado del 1905 e a oggi sorta d’immenso bacino, recapito finale di ogni contaminazione immaginabile. E, ancora, dal disastro atomico di Černobyl agli scheletri del tessuto urbano della Detroit post industriale; dalle rovine di ruggine del porto di Arthur Kill, nel New Jersey, agli esperimenti botanici della foresta di Amani in Tanzania. Dal mondo invisibile dei tossici nei mulini di Paterson all’isola abbandonata di Swona, Cal Flyn, saggista e giornalista, ci conduce in un viaggio affascinante alla scoperta dei meccanismi attraverso i quali la natura è capace di adattarsi o addirittura di rinascere in seguito all’abbandono cui vengono lasciate intere aree della Terra, vittime di logiche commerciali, di dismissioni industriali fino alla cecità dell’orrore umano.

Ciascuno dei luoghi raccontati rappresenta per Flyn – e per chi li scopre insieme a lei per la prima volta – la chiave di un mistero che, come tutto ciò che ci è ignoto, non può essere raccontato con occhi filtrati dalla sola razionalità della scienza o dal rigore sintetico di un’inchiesta giornalistica. Cal Flyn conduce, così, un suo viaggio personale dentro scenari che pagina dopo pagina diventano una possibile spiegazione del mondo che ci circonda. Non è affatto ardito definire Isole dell’abbandono – pur senza mai tralasciare un approccio scientifico – come un’indagine psicologica che, attraverso larghe pennellate poetiche, si configura come il tassello di una letteratura di viaggio sui generis e, insieme, come scoperta e occasione di riflessione complessa – e non di rassicurante risposta – sulle dinamiche tra paesaggio antropico e naturale, bussola alternativa e ugualmente possibile davanti alla catastrofe climatica che da tempo incombe sulle nostre vite.

Progetto nato un giorno dell’inverno del 2017 mentre Flyn era di passaggio nelle isole Slate (la scrittrice vive alle isole Orkney all’estremità nord-orientale della Scozia) da una suggestione sulle cave abbandonate di ardesia oggi diventate piscine naturali, Isole dell’abbandono è una disamina sul post antropocene, su cosa resta della traccia dell’uomo dopo il suo passaggio. Lontana dunque da un’idea di ecologismo attivo, senza allo stesso modo tacere della mano devastatrice dell’uomo sul paesaggio e l’ecosistema che lo sottende, Flyn si concentra su una sorta di natura anarchica, capace con selvaggio e allegro oltraggio di dare vita a nuove forme secondo la sola logica che le appartiene, quella che non conosce forme di conservazione ma solo di continua evoluzione, in grado di rinnovare se stessa, distante com’è, invece, dai limiti umani di preservazione di se stessi all’interno dell’ambiente circostante.

Atti di sottomissione (in originale Acts of Desperation, traduzione di Tiziana Lo Porto) porta con sé lo sguardo dell’irlandese, classe 1990, Megan Nolan. Pubblicato dalla casa editrice NN nei mesi dell’autunno 2021 – primo libro della collana Le Fuggitive – è un romanzo/confessione durissimo che racconta, semplificando, la storia di un amore tossico, quello tra la protagonista e Ciaran, un giovane di origine danese, affascinante e insensibile. Quello che per trama e dalle prime pagine maggiormente sembrerebbe configurarsi come un romanzo più classico, un coming of age a tinte rosa – con una cifra stilistica assolutamente urban e contemporanea, poco a poco, però, costringe il lettore in un angolo. Quasi come se la protagonista e voce narrante invitasse il lettore dapprima nella sua casa accogliente, calda, dai colori pastello e poi, nel corso della stessa sera, mettesse da parte l’apparente leggerezza obbligando il suo ospite, ormai con le spalle al muro per la fascinazione subita, ad ascoltare una storia sempre più dolorosa, respingente e drammatica.

 Scrivere di questa cosa che è il contrario dell’amore

Atti di sottomissione non è una autobiografia bensì un romanzo che, inglobando dichiaratamente anche alcuni elementi del suo stesso percorso di vita da giovane ragazza dublinese – fino alla consacrazione come giornalista e scrittrice – sa raccontare con disarmante autenticità gli anni della vita di una sua possibile coetanea (con alcuni ricordi che riemergono anni dopo in una Grecia che fa da quinta a un possibile, sempre problematico, bilancio) e, forse, di un’intera generazione. Un’esistenza condotta in una spirale di distruzione volontaria confinata nello spazio ristretto prima di rapporti occasionali, quindi dentro ai confini angusti e angoscianti di una storia asciutta e devastante. Sesso violento, alcolismo, desideri masochistici, insicurezze e vendette, un corpo perduto dentro il bisogno di piacersi attraverso l’accettazione degli altri, sono raccontati strappandone a morsi la patina di fascino letterario, restituendo, così, un percorso di crescita che non vuole nascondere il male dentro la banalità del quotidiano.

Storia personale, certo, eppure paradigmatica del rapporto dell’adolescenza femminile di tanta parte di mondo odierno che, orfano delle strutture pur negative che hanno preceduto questi anni, si affaccia sui baratri emotivi di vite che si fanno sempre più complesse, labili – come sono – della possibilità di rapporti forti e leali, dentro a un edonismo che non sembra voler perdere colpi. E che, invece, costringe a far continuamente i conti con vittorie e sconfitte che nulla avrebbero a che fare col singolare percorso che ciascuno di noi dovrebbe o potrebbe compiere alla ricerca se non di una possibile felicità e di un possibile amore – per alcuni aspetti è la coincidenza dei due aspetti a far precipitare la protagonista, la necessità di rincorrere qualcosa che ai suoi occhi possa renderla finalmente unita, levigata, compatta – certamente di una consapevolezza di sé che passi per una autenticità che possa tradursi nel semplice concetto del volersi bene e del non farsi del male.

Se la storia con Ciaran si fa emblematica di un rapporto abusante con uomo emotivamente incapace e ferito, Atti di sottomissione è, però, molto abile nel mettere in luce come a questa storia la protagonista arrivi non in virtù di una casualità ma di una predestinazione personale, familiare, ambientale e, perché no, di genere che è il vero tema di un racconto crudissimo che non fa e non si fa sconti, aprendo un orizzonte narrativo giovane e immerso nel presente che sembra andare oltre la – incomprensibilmente celebrata – patinata fiction di scrittrici di maggiore successo.

È, infine, la piccola casa editrice napoletana Tamu Edizioni (al centro di un progetto che prevede anche una libreria indipendente che anima la vita culturale dei vicoli del centro storico sotto l’ombra della trecentesca Basilica di Santa Chiara) a condurci verso l’ultimo originale sguardo al femminile di questa “rassegna”, portando per la prima volta in italiano i racconti con cui esordì nel 1990 la scrittrice anglo-caraibica Pauline Melville, classe 1948, madre inglese, padre guyanese ma di sangue nativo americano, africano e scozzese. Attrice poliedrica – ha lavorato nel teatro per il Royal Court Theatre e il National Theatre ed è andata in scena in serie tv, film e spettacoli di cabaret – esordì quarantaduenne nella narrativa con i racconti di Uno di questi due paesi è immaginario (Shape-shifter, traduzione di Pietro Deandrea) che mettono al centro della narrazione proprio i mutamenti di forma, appunto, del complesso e variegato universo delle colonie britanniche. In scena un dialogo (im)possibile tra due diverse culture, quella britannica e quella dell’arcipelago caraibico, con quest’ultima a gettare l’ombra lunga delle sue credenze e della sua tradizione fino ai sobborghi londinesi. Così una giornata di un giovane scozzese ne Il viaggio di McGregor si trasforma in una discesa infernale – nel budello dell’underground londinese – che riecheggia il mito di Orfeo e della sua creola Euridice, mentre l’incontro ancora a Londra con una stilista sudafricana che promette alla protagonista di realizzarle una giacca – La verità sta nei vestiti – si colora di tinte scure e stregonesche.

L’elemento fantastico, magico, sciamanico attraversa il mondo guyanese come nel racconto di apertura Non prendo i messaggi dai morti dove uno speaker radiofonico, Shakespeare McNab, per riconquistare la fiducia di un uomo politico corrotto, è costretto a inscenare, lungo la strada che porta alla sua casa, il rituale che richiama la Diablesse del folclore locale.

Il mutaforma può sfoderare tante sembianze e manifestazioni quante sono le onde del mare

Quelle di Shape-shifter sono storie piccole e minimali che si rifanno alla grande tradizione del racconto novecentesco. Ne Il litigioso l’incontro tra un padre e suo figlio sordomuto e una donna conosciuta in un’erboristeria è un piccolo gioiello on the road, mentre in Per quelle due sterline, signora Parrish assistiamo al parossismo di incomprensioni tra vicine della classe media che montano pagina dopo pagina.

L’universo cui Melville ci introduce nel suo esordio è quanto mai variopinto: ci sono bianchi e neri, personaggi che appartengono tanto alla working-class che alla classe media, gli stessi luoghi sono mutevoli – Guyana, Giamaica, St. Vincent, l’Inghilterra e la Scozia – a formare un mosaico che mescola brillantemente realismo e realismo magico, commedia e satira, allegoria e critica sociale, restituendo al lettore tutta la dinamicità di un mondo complesso e in costante movimento.

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