Siamo stati al Festival del cinema di Malaga e abbiamo imparato qualcosa

Emilio Blablacar ci passa a prendere alle sei e un quarto in Plaza del Triunfo di Granada. Inutile dire che il sole non era ancora sorto e faceva un freddo che non è molto spagnolo. La direzione è, dopo l’azienda per cui Emilio è costretto a guidare a quell’ora, il Fetival del cinema di Malaga, che è più calda e c’è anche il mare. Smollati in un outlet di moda siamo arrivati in centro, lasciando la macchina dell’altro, quello spagnolo e che ha realizzato insieme questo report, in un quartiere che vi consigliamo di non visitare, perché oltre al mercato e la difficoltà nel parcheggiare non ha nulla. Comunque arriviamo allo spazio prensa del festival, dove ci danno i cartellini per poter entrare gratis alle visioni. Ma sin da subito ci sono un mucchio di giornalisti più seri di noi, i giovani tutti rigorosamente alternativi, i più anziani in giacca e cravatta. C’è il sole è vero, però il vento ti fa volare via, tant’è che un mucchio di cartelli cadono e tagliano le caviglie ai malcapitati che ci stanno appoggiati. Alle 12 abbiamo la prima, e unica, visione a cui assistiamo, perché l’altra, che stava di sera, l’avremmo passata a dormire e abbiamo preferito tornare a casa. Il tempo prima di catapultarci al Cervantes dove lo proiettano, che è la tipica idea del teatro che ti fai della Spagna, con le sedie dei vecchi cinema in legno, ci permette di fare la seconda colazione a base di churros untissimi e un caffè che più lungo non si può.

Il film che non vedremo mai in Italia, perché spagnolo e difficilmente vendibile nelle nostre sale, si chiama Dioses y Perros, una versione spagnola di Never break down, con più crisi economiche, alcolizzati e molta meno azione. Il protagonista che nutre così tanto dolore e risentimento verso il mondo, che trova nel combattimento e nel far tacere quella che diventerà la sua ragazza l’unico modo per sfogarsi, è Hugo Silva, gay represso ne Gli amanti passeggeri di Almodóvar. Non che ce ne fossimo accorti in realtà, però quando il cast è arrivato e nessuno se n’è accorto, è uscito lui dalla macchina e tutti gli si sono fiondati addosso. Il film però piace alla platea, le risate sono tante e qualcuno grida a Enrique Arce, attore apprezzato per Manolete (così dice Wikipedia.es), che è il miglior film spagnolo che avesse mai visto. Questo ci introduce nel primo pensiero serio della giornata: se un film del genere viene così bene accolto da quella che doveva essere la critica, forse in Italia ci lamentiamo un po’ troppo della scarsità dei nostri registi, anche se qui La grande bellezza non l’ha visto nessuno e ci salva dalle inevitabili considerazioni, quasi al limite della barzelletta, su un italiano in un festival straniero. Già ci eravamo stupiti del fatto che non ci fossero ballerine di flamenco e, invece, è tutto molto più organizzato che da noi.


Mentre una folla di studenti e assetati di gossip si ritrova alla conferenza stampa post film, a noi tocca aspettare fuori perché il numero massimo era già stato raggiunto un secondo prima. Dioses y perros però continua a scolnvolgerci quando gli attori si fermano a bere una birra con tutti gli altri, cosa che in Italia non potrebbe succedere, dove anche una comparsa si becca un minimo di interesse. E, per quanto in Spagna le serie siano molto più importanti del cinema tradizionale, quel modo di porsi al pubblico è piuttosto stimabile, anche se hai appena recitato in Dioses y perros. Ed era il secondo pensiero serio, perché poi dopo aver cercato inutilmente di far posare uno degli attori per la campagna in cui più ci odi più ci piaci (qui, puoi trovare le foto), scatenando le ire del controllo stampa che lo ha definito «Un poco brusco», siamo finiti nel paradiso dello street food di Malaga e ci siamo massacrati, come se il sole non fosse bastato.

Un rapido giro per la città, dove il red carpet è ovunque, come a non farti dimenticare che sei lì per scrivere un pezzo sul cinema e non ci stai riuscendo, e siamo tornati in zona stampa, come delle rockstar solo perché non avevamo la stessa abbronzatura del cittadino medio, e allora magari fai parte di una pellicola indipendente svedese. Se non siete stati ancora a Malaga è un peccato, ed è un buon motivo per andarci anche quando c’è vento, le palme che si muovono e i primi costumi che appaiono sulla spiaggia. La differenza maggiore con le città dei festival, magari più importanti, è che, nonostante i diecimila eventi e insegne che ti ricordano dove stai, c’è molto meno via vai, i turisti si mescolano alla stampa, non ci sono troppe urla e troppi flash, anche di sera. E lo senti meno, senti che sei più a Malaga che con un cartellino prensa attaccato ai pantaloni. Poi il sole è calato e ce ne siamo tornati a Granada, perché rischiavamo di addormentarci dappertutto.

In ogni caso dobbiamo ringraziare il festival di Malaga, per averci dato l’opportunità di vedere le differenze che ci sono con l’Italia, che ci può essere meno apparenza nel cinema e molta più attenzione ai particolari. Anche se abbiamo poco da imparare dal punto di vista del fare cinema, perché ripetiamo, siamo abituati troppo bene, il loro punto di vista su come si sviluppano i rapporti col pubblico e la stampa, forse, dovremmo iniziare a prenderlo in considerazione.

Il Festival di Malaga finirà il 28 marzo, dopo una decina giorni serrata di proiezioni e eventi, e tappeti rossi, e attori nelle discoteche. Uno fra i tanti motivi per andarci, almeno per la possibilità di beccare Megan Montaner, che oltre a recitare in Dioses y perrros è parecchio interessante.

Un sentito ringraziamento a Sergio Rubio Belmonte, amico, traduttore e sostenitore in questa impresa.
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