La sinistra che ha perso il paese

Com’è naturale che sia, l’esito delle elezioni dà un’idea piuttosto specifica dello stato di salute di un paese democratico, nel nostro caso con indicazioni piuttosto evidenti. Non siamo un paese di sinistra, ma anche i partiti di chiara appartenenza neofascista non hanno sfondato, il mondo post-ideologico, per usare un termine affine a ciò che ha scritto Ida Dominijanni, ha mostrato una parte di ciò che è, insicuro, fragile e bisognoso di avere un nemico valido in cui convogliare tutte le proprie energie. Il negro, il clandestino, l’uscita dall’Europa, da una parte che apprezza i toni forti e si riconosce in una violenza che, prima dei fatti di Macerata e Firenze, era solo verbale. Dall’altra la delusione che si è trasformata nella più dura condanna nei confronti della classe dirigente e agli eredi di quei partiti, soprattutto appartenenti al centrosinistra, che hanno volontariamente accettato che le guerre intestine fossero più importanti di formare quelli che gli sarebbero succeduti. La sinistra, si dice, ha tutti questi problemi perché non si accontenta di raccogliersi attorno alla figura del padrone, tendendo a lottare così tanto all’interno da perdere le ragioni del motivo per cui, prima, si trovavano insieme.

 

Leader & topi

 

«Questi uomini», scriveva Gramsci a proposito di chi guidò l’unificazione italiana nei Quaderni dal carcere, «effettivamente non seppero guidare il popolo, non seppero destarne l’entusiasmo e la passione, se si intende demagogia nel suo significato primordiale». Populismo è una parola che rimbomba nei corridoi del Quirinale attraversati, nervosamente, dal passo zoppicante di Mattarella, che si trova a essere sacerdote dell’ultimo viaggio, ironicamente, di quella politica basata sugli statuti e la fedeltà al partito in cui è vissuto. Hanno vinto i nuovi leader, più bravi degli altri a ripulire la propria immagine non una ma cento volte. Quelli in grado di poter tranquillamente affermare che gran parte del loro programma è inattuabile pochi giorno dopo le elezioni o continuare a convincere ancora, per una logica che mira a sottostimare il potenziale di chi si ha davanti, come se cambiando modello di pantaloni, e non la misura, ci bastasse per sopportare l’idea di non essere diventati tutti parte della pancia del paese. La delusione viene da qui, dalla tabula rasa che attende la parte democratica, già cosciente che oltre l’abissale sconfitta c’è solo il vuoto, non per una scommessa teologica ma per un’evidente mancanza di alternative. Non è un caso che, mentre i vari reduci si chiudevano nelle stanze di nuovi partiti speculari per comprendere i motivi della loro rottamazione, e chi si è trasformato in pochi anni da capo corrente a segretario e, infine, peso scomodo da cancellare rifiutava di farsi da parte, in Germania la sezione giovanile dell’SPD si ribellava al voto degli iscritti sull’alleanza politica con Angela Merkel.

 

Miguel Medina/Agence France-Presse

 

Parlavamo di guerre intestine che hanno bloccato la naturale riproduzione del dialogo politico all’interno e all’esterno di un partito. L’hanno smantellato cadendo nel gioco del consenso facile, smettendo di porre le domande a cui avrebbero potuto rispondere, come tutti gli altri, fino al silenzio, in una campagna politica senza parole ma con urla di rivendicazione rimbalzate fra un social network e una tribuna politica circondata da applausi scroscianti e giornalisti confusi. La dialettica del pressapoco e del conseguente doloroso sarcasmo dello sconfitto, quella per cui Umberto Eco, probabilmente, non aveva voluto vedere nel suo essere così profondamente radicata nella nostra opinione pubblica, per darci una speranza, forse.

La corsa fra gatti e topi è ciò che ci aspetta, come nella graphic novel Maus di Art Spiegelman, in cui nessuna azione sembra poter limitare la vittoria della barbarie, finché è troppo tardi, finché l’unica soluzione diventa sopravvivere finché si può e venirne, indelebilmente, segnati. Nelle parole del padre Vlad («Tu non capisci! (…) In quel periodo ognuno pensava per sé!»), nei suoi racconti feroci di ciò che è stato e dell’assurda divisione fra razze e simboli animali, si ritrova non solo quella forma di opportunismo che separa in due schieramenti opposti ma un certo tipo di rassegnazione al proprio destino che non permette di respirare un’aria pulita né di vedere un’alternativa al presente. I topi, destinati a rimanere nel buio e a uscire soltanto quando una parte di cibo viene lasciata incustodita, lottano per una poltrona più comoda e non per un disegno più grande. La guerra la si è persa perché si è dimenticato che prima di chiedere un voto, prima di prosciugare l’anima assumendo la pretesa del voto prima utile, poi intelligente, infine disperato, si sarebbe dovuto cominciare a costruire, da tempo, un percorso in grado di superare le sconfitte e di limitare, con la cultura della politica sana, la deriva che oggi e domani saremo destinati a subire.

 

Potevamo sognare un paese migliore

 

I partiti moderni non sognano più. Cercano risposte, nella maggior parte fantasiose, ai problemi che le persone possono vedere direttamente con i propri occhi. La delinquenza, la sicurezza, l’invasione, il senso di essere sempre in pericolo e, da ultimo, la povertà. Non sono interessati a creare un percorso in grado di prevenirli e hanno tutti i mezzi per proseguire in questa corsa. Le armi di difesa democratica si sono arrese al destino di minoranza, non sono riuscite a imporsi nel nuovo flusso informativo e in ciò che siamo diventati: un paese che ignora volontariamente il suo futuro, che affama i corpi che dovrebbero essere nutriti per crescere un giorno forti e prendersi cura di chi verrà dopo. Il fallimento della sinistra italiana non è tanto nelle sue esperienze di governo ma nella sua incapacità di rappresentare un’alternativa, di instillare nei più giovani il gusto del progresso e delle battaglie sociali, quanto di mantenere vive le passioni dei più maturi, accogliendoli al loro interno. Questo tipo di percorso ha lasciato alle destre il compito di sostenere le classi più povere e le borgate ma ha anche volutamente tralasciato la sua dimensione intellettuale, perdendo il proprio vocabolario e adeguandolo a quello di un Berlusconi qualunque, più bravo a gestire i mezzi di comunicazione e a trovare le parole adeguate per un mondo come quello di oggi.

La generazione dei trentenni senza più sogni e aspirazioni si è diretta verso l’alternativa di comodo piuttosto di crearne una, così hanno fatto quelli al primo e al secondo voto. Non siamo noi quelli che avrebbero dovuto cambiare il mondo, dicevamo, in una fila d’attesa che non ha mai previsto un avanzamento e, in poco tempo, ci siamo ritrovati di nuovo in fondo. Volevamo un cambiamento ma ora ci svegliamo consci che nessuno è stato in grado di descrivere ciò che eravamo, di cosa avevamo bisogno, di renderci maturi davanti allo scontro ed essere convinti che la parte da prendere fosse quella degli ultimi. Questo voto attesta il fallimento di un’intera generazione politica che non ha mai saputo guardare aldilà della propria possibile carriera e che, ora, fa pagare le conseguenze a quelli che avrebbe dovuto difendere. Qui intorno ci sono solo macerie su cui nessuno sarà più in grado di costruire un nuovo paese. Quello migliore, che ora nessuno ha più voglia di vedere, mentre tutti sono disposti a mantenere in vita quello passato, attaccandocisi con unghie e mani, strappandosi i muscoli e sparando sulle persone considerate complici di questa decadenza.

La sinistra diviene inutile quando non trova più ragioni per difendere, e per una manciata di anni al governo sposta la linea dei valori non calpestabili sempre un passo più in là, trasformandosi in una pessima replica di un Leviatano troppo ingombrante per essere sostenuto.

Exit mobile version