Quella volta che abbiamo organizzato un festival | Sofàr Festival, Cavriago (RE)

Sono passati tre giorni e ancora le occhiaie non se ne sono andate e le ore di sonno perse le recupererò solo fra qualche settimana. Ma oltre ai muscoli che lentamente si riprendono dagli sforzi e le giornate tornano al loro flusso, sono altre le cose che ci sono rimaste. La storia di un festival non comincia mai pochi mesi prima, e sembra quasi da una vita che ci stessimo preparando a una giornata di questo tipo. Una volta ci eravamo andati vicino, qualche anno fa, ma poi tutto si era perso. Mancanza di fondi, non di idee, e forse eravamo troppo giovani. Perché a forza di frequentare concerti e festival prima o poi ti si infiltra nella testa la voglia di organizzare qualcosa di tuo, soprattutto in posti dove cose del genere non sono mai arrivate. Ci sono le sagre, è vero, e anche le feste dell’Unità, ma non le abbiamo mai vissute nel loro splendore originale, e ormai sono diventate un ricordo del passato, anche se meno nostalgico rispetto ad altre zone. Fra le campagne, e la vecchia piazza col busto di Lenin. Nello stesso locale, che è diventato Circolo Kessel, gli Offlaga Disco Pax avevano debuttato, e sarebbero tornati a festeggiare i primi dieci anni della loro storia. Si tratta sempre di un tentativo di dare nuovi significati ai posti che ne hanno già altri, e ce ne si accorge sempre quando tutto è finito. Creare un festival per la prima volta ha tante complicazioni differenti, e l’organizzazione è solo quella più evidente. È un investimento importante, non solo di soldi ed energie, ma su se stessi, sulle persone che ti aiutano e quelle che, invece, speri parteciperanno con la stessa voglia che hai messo tu. I numeri non servono più, perché le forze che usi non le puoi quantificare e quando arriva il momento di fare i conti lo scontro si articola più fra immaginazione e realtà e non puoi davvero sottrarti. Per tutte queste ragioni, quella volta che abbiamo organizzato un festival non può essere la storia di un elogio che si parla da solo, ma una riflessione su tutto quello che significa mettersi in gioco in situazioni come questa.

 

 

Il 24 settembre poteva piovere. Era questo il primo timore che ci si è presentato, invece è venuto un caldo subsahariano che ci ha bruciato la pelle, in particolare la mia, che nonostante l’estate è rimasta bianca come un lenzuolo. O poteva non funzionare il service all’esterno, andare via la corrente e tanti altri piccoli problemi che ci hanno tormentato le poche ore di sonno fra una giornata di preparazione e l’altra. Li metti in conto, certe problematiche, e se te le fai è solo per arrivarci più preparato. Nicolò era sommerso di telefonate, i camion stracarichi di cose da montare, la notte del venerdì in un ex macello un trono enorme per bambini ci guardava in modo beffardo mentre caricavamo i blocchi di cemento per le reti. L’accoglienza per i mercantini vintage, il posizionamento dei divani sullo spazio del festival, i vari allestimenti dell’ultimo minuto. Uno stop doccia, Giacomo aka Yakamoto preso al volo in stazione e il ritorno a Cavriago con il jack della radio che funzionava male. Ma alle 15 di sabato era tutto pronto. Il primo passo, dopo mesi di contrattazioni, di ricerca di sponsor e tentativi di creare una campagna di comunicazione decente con quello che avevamo. Le persone hanno cominciato ad arrivare, gli Oblomov resistevano in giacca e cravatta sotto il sole. Alle pareti James Kalinda e Astronaut facevano girare i rulli. Cercavamo di essere in più posti contemporaneamente, è arrivato il momento del primo cambio palco in esterno mentre i Dardust cominciavano a fare il soundcheck dentro al locale. I bar in funzione, la cucina che resisteva al calore della giornata e a quello di friggitrici e piastre.

 

 

Mi sono riuscito a fermare un attimo, proprio mentre i Plastic Lungs cominciavano e le potenzialità del loro ep, anche se in formazione ridotta, si sono confermate. I primi sorrisi, sui volti dei compagni di viaggio come in quelli dei partecipanti, piccoli momenti di pace, ma poi riprendeva subito la corsa. Le ore sono passate più in fretta di quanto ci saremmo aspettati, sui muri i disegni prendevano forma con l’aggiunta di Signora K, Bibbitò, Mr.Dada, NemO’s e Hang. Coding Candy sul palco, altri giri e tocca subito a un altro cambio palco con i deck di Nic2Birilli, con la giacca e il sound dei vinili, mentre il sole si abbassava e lasciava posto a un freddo che bruciava le ginocchia. Il momento di un Be a Bear mascherato e i visuals di certi vecchi film che si muovono in sincrono, la gente mangia e dalle finestre del locale li osserviamo muoversi. Li guardiamo da lontano ma è come se fossimo lì in mezzo. Ci diciamo che forse potevano essercene di più, ma osservandoli capisci che sono lì per qualcosa che abbiamo creato dal nulla, e ne è valsa la pena, ma dura soltanto un attimo perché già ci cercano. I Dardust cominciano a suonare alle undici, siamo in orario, e cominciano già i primi lavori di smontaggio mentre un centinaio di persone iniziano a salire le scale del club. I coriandoli della chiusura volano dal palco sulle persone felici che si stanno divertendo e, anche se non possiamo essere in mezzo a loro, sentiamo questo tipo di calore. Il live di Yakamoto Kotzuga è lacerante, nel modo in cui riesce a prendersi il suo spazio ed entrarti dentro, fino a consumarti le ultime energie che ancora ti rimangono, negli spigolosi movimenti che richiede la sua musica. Dopo di lui l’aftershow e gli ultimi stoici a proseguire, fino alla chiusura delle tre e un primo sospiro. È davvero finita, anche se c’è ancora da fare, ma tutto ha preso una sua velocità e non siamo riusciti a fermarla quanto avremmo voluto ora, che la stiamo ricordando.

 

 

Guardiamo il piazzale ormai vuoto con un po’ di nostalgia, anche il giorno dopo, quando c’è da svuotare tutto. La prima edizione del Sofàr è finita velocemente. Ma è una storia che ha bisogno necessariamente di un altro capitolo, e forse pure di un terzo o un quarto, per poterla comprendere. Un pensiero ci investe, dopo tutto quello che abbiamo passato, e si dirige verso i tanti che non ci sono stati. La prima volta che ci siamo guardati negli occhi pensavamo a quanto avremmo voluto far entrare nella mente delle persone quella filosofia più da metropoli che da campagna. Una costituzione di tanti spazi di ritrovo diversi, diversi, non troppo lontana da come ci avevano raccontato le vecchie feste di paese. Ci dicevano che sulla cultura non si investe perché sono le persone le prime a tirarsi indietro, e che certe logiche degli aperitivi, dell’usare alcune vetrine social per darsi un tono, sono quasi impossibili da estirpare. E l’abbiamo visto e provato sulle nostre fronti bagnate di sudore, e anche un po’ sulle lacrime. Ci siamo sentiti, però, dalla parte giusta, senza rimorsi. La verità è che una volta che si perde la curiosità, e la voglia di buttarsi in situazioni diverse, preferendo altre cose non si ha necessariamente torto, perché anche quelle sono scelte, ma, di certo, si perdono delle occasioni. Quella volta che abbiamo organizzato un festival è finita che avrei voluto piangere, guardando con quanto poco si poteva credere in un mondo diverso.

 


Tutte le foto sono a cura di Niccoló Piccinini, tutti i diritti riservati

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