Sono solo l’ombra della luce | Club to Club 2017

Fotografie di Alessia Naccarato

 

C’è uno spazio temporale, fra il vivere e il vissuto, in cui l’istante non si è trasformato in segno. È quella parte di memoria che oscilla, per pochi giorni ancora, man mano che la vita riprende a scorrere e la gamma dei sentimenti tende a riassumersi nei suoi colori più determinati. Il momento in cui il sistema entra in recovery, seleziona le parti necessarie e dimentica le altre, quelle che sono solo l’ombra della luce, i contenuti latenti che caratterizzano la nostra esperienza prima che si mescoli al tessuto collettivo. Ciò che, in fondo, trasforma ciò che siamo. Parliamo di non-luoghi della memoria che valgono come mirroirs, in cui ritrovarci immersi dentro le sale meccaniche delle Officine Grandi Riparazioni e di quelle del Lingotto. Di un Club to Club che chiude un circolo ricostruendo le proprie radici e ne segna contemporaneamente di nuove, del lavoro che si è fatto e di quello che ancora serve. La dimensione interiore in cui la musica si fa con le persone, dove le casse toraciche diventano ripetitori che si accostano in un’inedita sincronia, cheek to cheek, rib to rib.

 

 

Se siamo partiti dalla fine il motivo si chiama Nicolas Jaar e la sua variabile precisa, quel suo modo di rendere il concerto l’esperienza politica che è, in cui l’ascoltatore diventi cosciente del proprio ruolo. Educare non è un compromesso ma la rottura di una catena di silenzio e l’estensione dei propri confini, anche nella musica. Trasformare in live Three Sides of Nazareth in una versione acid privata di bassi, passare dalla drone alla drum and bass in una rivisitazione heavy di Jailhouse Rock o, semplicemente, aprire il proprio djset alle quattro del mattino con la sola voce di Franco Battiato per un paio di minuti su una base minimale, sono la rappresentazione di un artista che non fa sconti a nessuno, principalmente a se stesso, perché la direzione gli è così chiara e le sue mani così esperte che è impossibile non lasciarsi accompagnare in quell’ombra della luce. Non è prevista la fuga o la divagazione per questi tempi compromessi, e l’immediatezza del suono fa da schermo alla complessità della sua struttura come per tutte le cose che hanno valore, che comprendi, poco a poco. Jaar è ostinato e duro, in questo suo percorso, ma è la determinazione necessaria per creare una ricettività diversa. Sottrarre i bassi e poi lasciarli esplodere nella cassa dritta, arrestare i drop proprio quando il pubblico ha già anticipato il movimento, significa opporre all’abitudine un’imprevedibilità totale. Sapersi immergere in un set del genere è la parte fondamentale per comprendere gli altri e questo deus ex machina, che al carattere celeste sostituisce una versione fragilmente umana, la cui ragione è trasformare il proprio linguaggio in uno strumento d’azione. Caratteristiche tramandate da un genere come il jazz che, proprio per la sua natura immersiva e imprevedibile, permette di trovare nell’esibizione alle OGR di Kamasi Washington il corrispettivo più intenso (e inedito) di Jaar. Dalla fine all’inizio, come dicevamo.

Quello di Kamasi è un collettivo che si raduna attorno alla sua figura tremendamente fragile, depositaria di un it sacro e di tutto il peso che comporta. Un’esigenza comunitaria costituita da diverse voci, a cui lascia spazio durante il concerto così che possano venire ascoltate e dissezionate in ogni loro parte, dalle batterie alle tastiere, dal trombone alla voce di Patrice Queen. Kamasi è questo direttore dai polmoni d’oro che danno vita alle note del suo sax tenore e permettono di ricollegare tutto a una sinfonia collettiva che lo sfinisce. Lo si vede nella chiusura di Truth che improvvisamente si interrompe nell’assolo finale ma trasporta un significato così profondo da portare le lacrime agli occhi. Si tratta di persone, come noi.

 

 

Sono femminili le voci che costituiscono la materia onirica di questa edizione, all’interno di una line up caratterizzata soprattutto da tratti dark e oscuri. La forza di Szjerdene durante il set di Bonobo è una delle dimostrazioni più luminose di questi possibili incastri fra macchina e sentimento, soavi e poi improvvisamente duri, come i suoni di Green che oscillano fra la ricerca del battito estemporaneo che faccia muovere il pubblico e il suo background postrock, rappresentato dai colpi di strumentale in live fatti col basso e la band. Ma Szjerdene funge da alternativa ipnotica, racchiude e protegge uno all’altro, dando vita a uno dei live più completi del venerdì del Lingotto. Così come accaduto con la Queen di Kamasi e, il sabato, con l’energia infinita di Bonzai e Mura Masa, queste voci amichevoli creano un’atmosfera a sé stante, duplicano le esperienze dei concerti classici ma con uno sguardo rivolto più al futuro eccentrico e postromantico che appartiene ad Arca & Jesse Kanda. Le nuove generazioni si mescolano a quelle più mature, il presente a quello che sarà. Un’anticipazione o forse un vero e proprio viaggio fra le epoche che parte dai Kraftwerk e tocca le batterie elettroniche di Mura Masa, dalle Smerz fino a Richie Hatwin che, con il suo nuovo concept Close, ci porta immediatamente all’interno della pratica di djing, come se stessimo guardando dalla vetrina di un negozio l’artigiano che crea un incubo fatto di bpm e musica minimal. Un ricambio inevitabile e destinato a prendersi sempre più spazio, su cui è necessario investire soprattutto per insegnare l’ascolto e il piacere della scoperta.

La componente dark è affidata al trasferimento del Red Bull Stage al Padiglione 2 che, finalmente, trova il suo spazio ideale. Colpo su colpo, da quelli di Ben Frost e Jlin che lottavano a distanza con Bonobo, alle vorticose evoluzioni di Not Waving che, nella sua nuova veste più EBM/minimal, è in grado di sbaragliare la concorrenza, finiamo trascinati in un ambiente della Berlino che conosciamo, fatta di fabbriche trasformate in templi dell’electro. Il Padiglione funziona perché accoglie più persone, funge da alternativa più democratica quando serve, dimostrato dal pazzesco live di Jacques Green,  e cattiva all’evenienza con quella certezza che negli anni si è dimostrato Yves Tumor.

 


L’impatto del Club to Club si ritrova in queste pieghe che si muovono fra la luce e l’ombra, uno stato ancora ebbro in cui ricostruire in un collage i vari episodi che ne hanno caratterizzato la storia e che lo faranno ancora per molti anni. Un lavoro che si sviluppa soprattutto sulle persone che, per entrare nella sua filosofia, devono cominciare ad abituarsi alla scoperta di dimensioni che non hanno mai sperimentato. Una posizione politica, come quella di Jaar, che spinge alla ricreazione personale fatta di improvvise epifanie,trasformando in eroi maledetti chi riesce a identificarne la natura. Servono anni, ancora, per insegnarci a vivere in una dimensione europea e mondiale come quella del C2C. Proprio dove non sembrava nessuno potesse raccogliere, la kermesse torinese continua a seminare, confermandosi come il festival di cui non possiamo, necessariamente, fare a meno.

 

2 Novembre, giovedì

 

 

3 Novembre, venerdì

 

 

4 Novembre, sabato

 

Exit mobile version