Soundframes: la musica nella storia del cinema in mostra a Torino

From silents to sound films. Con queste cinque parole si apre “Soundframes. Cinema e musica in mostra”. Poi, dopo quattro piani della rampa elicoidale nel Museo Nazionale del Cinema e più di 130 sequenze di film in 90 metri trascorsi a fischiettare con Uma Thurman in Kill Bill Vol.1 o a ballare sul pavimento luminoso con Tony Manero ne La febbre del Sabato sera, capisci che quelle parole non erano altro che una promessa che è stata mantenuta.

Sfidato il freddo e entrati nell’Aula del Tempio, a guidare sono le cuffie, che da accessorio diventano la voce della storia del cinema. Il fil rouge del viaggio, all’ombra dell’ascensore trasparente che conduce fin sulla Mole Antonelliana, è la musica, protagonista del progetto che prende vita dal concept di Donata Pesenti Campagnoni, a cura di Grazia Paganelli e Stefano Boni, con la collaborazione di Maurizio Pisani, direttore del festival. Sin dal cinema muto, quando le esibizioni live di pianisti e compositori dovevano coprire il silenzio degli attori e il rumore della pellicola. E gli unici messaggi erano scritti sullo schermo, o meglio urlati dalla grandezza delle lettere, come l’accecante frase Vedi! Come la passione la sua fiamma si leva fino al cielo e abbaglia… ma dura un attimo. Scegli! ne Il Fuoco di Giovanni Pastrone nel 1915. Fino a The jazz singer del 1927 interpretato da Al Jolson, che segna il passaggio all’era del sonoro e conduce all’angoscia crescente di Alfred Hitchcock e Blackmail, il primo film sonoro in inglese.

Pochi passi per conoscere la musica come dialogo, nella rivoluzione dei musical che trasforma i set in palchi teatrali. Così, la mostra prosegue canticchiando sotto il diluvio con Gene Kelly Singin’ in the rain, o in veste di marinaio, con Frank Sinatra e Jules Mushin intonando New York, New York, it’s a wonderful town in On the town musicato da Leonard Bernstein, tra i massimi compositori e direttori d’orchestra del Novecento, insieme a Roger Edens. O ancora, più recente ma allo stesso modo rivoluzionario, John Skeletron di Tim Burton sulle note di Danny Elfam per Nightmare Before Christmas.

Dal musical ai grandi compositori dello sfavillante mondo hollywoodiano che accomuna l’immaginario collettivo, anche nella mostra, il passo è breve. Ma intenso. Come lo erano le colonne sonore che fanno del tappeto musicale un’emozione. Da King Kong di Peter Jackson hanno costellato l’industria cinematografica, aprendo la strada all’eclettismo che raggiunse l’apice nel giubbotto di pelle sgarciante di James Dean in Rebel without a cause (Gioventù bruciata) o nel linguaggio universale del terrore coniato da Spielberg con Lo Squalo.

Come ogni arte, così anche nella mostra l’evoluzione è d’obbligo. E il cinema d’autore aspetta al varco, quando la musica non segue le immagini ma le trascende. Al pari di un Jim Morrison nella colonna sonora di Apocalypse now. O l’inaspettata musica classica in Arancia Meccanica. Che non incornicia, che vive di vita propria. Tanto da prendere la forma di documentari musicali, prima, e di biopic dopo, assecondando desideri di registi indipendenti, di pubblico recalcitrante e di artisti sempre più al centro della scena, quali portavoce di lotte politiche e di apatie generazionali, negli anni di Woodstock e di Jimi Hendrix, della Pop Culture negli anni ’50. Un rapporto, quello tra filmografia e discografia, con la progressiva crisi della radio e l’avvento della tv, che si fa sempre più univoco fino ai videoclip. Prova ne è che non si sa precisamente quale sia stato il primo. Serviva solo un contenitore, chiamatosi poi Mtv, ma la strada era spianata. Il resto, come Video Killed The Radio Star o Thriller di Michael Jackson, è storia.

E allo stesso modo della musica, l’ultimo livello della mostra trascende dall’udito per immergersi in percorsi sensoriali immersivi e interattivi. Giochi, come tentare nuove colonne sonore per i film e ritrovarsi Satisfaction dei Rolling Stones nella scena iniziale di Shining. O musica a 360° con video da milioni di visualizzazioni come Kids degli One republic. Fino all’ultima stanza, quella del Silenzio. Che, come scriveva Robert Bresson, il cinema sonoro ha inventato e permette di sospendere suono e spazio e dare musica alle immagini ascoltandone solo il movimento.

La mostra, dedicata al critico cinematografico Gianni Rondolino, si può visitare fino al 7 gennaio 2019.

Foto di Cristina Palazzo

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