Soviet Soviet – Fate

Tramonta un altro anno ed è tempo di bilanci per chi campa di aria e musica, qualunque essa sia la sua posizione, musicista, critico o semplicemente ascoltatore. Il Made in Italy dopo un paio di stagioni di fuoco e di crescita pare essersi seduto sugli allori o quasi addirittura addormentato. Se prima dell’11 novembre scorso mi avessero chiesto di fare i nomi e i cognomi di chi salvare e chi invece buttare giù dalla finestra (in senso lato si intende), così a caldo non mi sarebbe venuto in mente nessun artista italiano apparso in questo 2013.

Perché dico proprio l’11 novembre? Perché da quel giorno a questa domanda so con certezza chi risparmiare all’interno del mercato nostrano. Si chiamano Soviet Soviet, vengono da Pesaro e in molti tra di voi li avranno già sentiti nominare, ma quello che forse non si sa ancora è che Fate – questo il nome della creatura appena nata – non è soltanto uno degli album migliori in circolazione ultimamente, ma è anche un lavoro che ridà speranza all’intero panorama musicale, fatto di ingranaggi più complessi di quanto si pensi.

Fate è un disco d’esordio che ha alle spalle più Ep, vinili, cassette e tour di qualsiasi altro veterano della scena indie-rock (sempre che ne esistano di veterani in questo campo), venuto alla luce con una consapevolezza già matura, come se tutti quei chilometri a saltare da un palco all’altro fossero diventati la loro ossatura portante, prima spostandosi verso i Balcani e poi proseguendo per l’Europa dell’Est fino ad arrivare nel Nuovo Mondo, una sorta di terra promessa, il Messico e gli Stati Uniti.  A New York avviene l’incontro con la label Felte Sounds che decide di accompagnarli in questa folle avventura e di portarli a battesimo in giro per l’America dalla East alla West Coast.

Nelle dieci tracce che vanno a comporre l’album non c’è segno di sound italico e mi viene quasi da tirare un sospiro di sollievo, non per il timore di ritrovarvi pizzica e taranta, ma semplicemente perché sappiamo tutti quanti che non è sempre il meglio ad ottenere successo fuori dai confini nazionali (vedi le Laura Pausini e i Tiziano Ferro della situazione che in qualunque continente voi siate vi capitano alla radio che cantano pure in maori). Se la matrice che alimenta Fate è sostanzialmente di natura post-punk/new wave sarebbe riduttivo fermarsi a questo giudizio, si tratta di un disco che colpisce prima dritto forte allo stomaco, per poi arrampicarsi lentamente, strisciando sui canali emotivi e nervosi.

Immaginate di trovarvi in una tipica giornata di novembre e non vedere ad un palmo dal vostro naso causa nebbia o pioggia – non è così difficile ipotizzarlo – uscite di casa, vi dimenticate l’ombrello e chissà quanti chilometri a piedi dovete fare. Siete già lì pronti a calarvi in testa il cappuccio del parka dello zio del cugino di vostro padre con in tasca l’onnipresente lettore mp3, quando vi rendete conto di non aver ancora ascoltato Fate dei Soviet Soviet. Forse questo è proprio il momento giusto per farlo.

Ecstasy apre la raccolta con un ritmo veloce, ultrasincopato, trascinato da una batteria che a sua volta rimbalza come appesa ad un filo, come un veliero che è stato scaraventato qua e là in mezzo alla bufera, in attesa che il resto della ciurma orchestrale accorra in suo soccorso. Il giorno lascia spazio definitivamente alla notte, le ombre vengono catturate da una radioattiva oscurità contaminata dalle sonorità ghiacciate, ma allo stesso tempo avvolgenti fatte di chitarre e basso che caratterizzano 1990, primo singolo estratto e manifesto rappresentativo del neo post-punk.

Intanto se con Introspective Trip è l’allucinazione collettiva a prendere la parola e immediatamente dopo con Further si torna coi piedi ben radicati a terra, è Gone Fast l’apripista delle ballate dai byte impazzati, il cuore affonda piano piano in una cascata lavica e comincia a galleggiare in No Lesson, un vortice silenzioso tempestato di mine pronte ad esplodere. E’ in quest’Apocalisse spensierata che si consuma il dramma della seduzione, lo definisco dramma perché l’esito non può che essere sventurato. Risucchiati con violenza da un impeto sonoro accompagnato soltanto da un eco lontano di parole, Together è contraddittoriamente buio e luce, trasparenza di riflessi incandescenti che lascia spazio alle grida primordiali.

Una bellezza in declino al di là dei vetri rugosi, mentre la pioggia continua a colpire i vostri cappucci militari vi scruta coi suoi occhi bagnati dalle mille ferite della vita, è Hidden ed è un’apparizione durante il vostro percorso sotto l’acqua che non smette di inondare le vostre spalle. Più rarefatta e altalenante è Something You Can’t Forget che si getta nel mare come il sole al tramonto d’estate, prima dell’ultima boccata d’ossigeno, Around Here, capace di stendere come una pallottola spuntata dal nulla e finirti lì sull’asfalto tra l’indifferenza dei passanti.

Fate è un percorso tortuoso nell’oblio, è una speranza, ma anche una condanna, una presa diretta con la realtà, un occhio fisso sulla società. Con la sua forte energia è l’espressione di una vitalità accesa, non un richiamo alla morte o a straniere forze oscure maligne. Fate è chiaro e ruvido, nè più nè meno, come il sonno senza riposo quando il mattino diventa sera e la sera ritorna mattina e non rimane che mandare al diavolo il jetlag.

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