Specchi, pt.10.

X.

Illustrazioni a cura di Alessandra Zecchetti
Illustrazioni a cura di Alessandra Zecchetti

«Pronto? Celine? So che è tardi e che forse sono un po’ sbronzo, ma vorrei che venissi qui».

La mia voce al telefono è spezzata, il mare dei ricordi mi ha sommerso e ci sto annegando di nuovo, non ho più la forza di un tempo che mi costringe a riemergere.

«Sarò lì fra mezz’ora, dammi il tempo di trovare un taxi. Speravo mi chiamassi, non riesco a chiudere occhio nemmeno io, un bacio, a dopo».

Quando Celine arriva i miei occhi sono arrossati dalle lacrime e dal fumo delle sigarette.

«Non fumavo così tanto da quel giorno».

Le dico, facendola accomodare in cucina.

«Gradisci qualcosa? Un thè, un caffè, uno scotch?»

«Credo che uno scotch sia quello che ci vuole».

Riempio due bicchieri, un cubetto di ghiaccio ciascuno, Celine è struccata, i capelli sono raccolti in uno chignon che le esalta il viso, è ancora bellissima, con quell’aria di maturità che ci aveva stregato. Si forma un silenzio imbarazzante tra di noi, io non so che dire, avevo solo bisogno della sua presenza. Una volta iniziato il percorso non si può più tornare indietro.

«Hai una bella casa, so che sei abbastanza bravo in quello che fai, si parla spesso di te»

Ho smesso di ascoltarla, il momento di terribile fragilità è già passato, Celine ora dovrebbe andarsene, oppure restare, ma non vestita. Avevo soltanto bisogni di accorgermi che tutto fosse reale, poi non c’è niente da aggiungere. La guardo profondamente negli occhi, ci sono ancora tracce di quella giovinezza che abbiamo perso in un giorno di pioggia. Lei poi scomparse, tanto che ero riuscito a dimenticarmi com’era fatta, lei no, lei lo doveva avere capito subito, forse si sente più in colpa di me. Dopo il suicidio di Sal mi laureai, presi possesso della scrivania e lanciai uno dei libri più venduti degli ultimi dieci anni, poi nient’altro, mi avevano preso Mizzy per motivarmi, io divenni un parassita che da lì non si può muovere. Nessuna promozione, nessun nuovo successo, un contratto che non può scadere. Pensavano di aver trovato la nuova Gertrude Stein e mi fecero firmare una specie di contratto a vita, come una lettera di immunità, da cui nessuno può uscire. So che la gente col vero talento difficilmente viene assunta, perché ci sono quelli come me, che magari hanno beccato una buca giusta nella vita e non si schiodano più. Me li immagino, in fila uno dietro l’altro, la borsa pesante sulle spalle, lo sguardo speranzoso e l’ennesimo rifiuto da incassare. Non mi sento in colpa, c’è chi non ha nemmeno mai lanciato nulla e, credetemi, ho creato un mito, cercando di lavarmi le mani col mio stesso sangue. E vivo di quello. Passa un’ora, Celine in lacrime, mi parla di Sal, di come la sua vita sia un disastro, di come non abbia ancora superato il trauma del suo ultimo fidanzamento. Io fingo di ascoltarla, il mio cuore ha ripreso i suoi battiti. Per certi uomini non c’è redenzione, perché la vita non è un film di Tony Kaye. I ricordi dolorosi del passato, in realtà, servono più a creare legami che a dispensare salvezze.

«Beh, credo sia ora che me ne vada, penso sia abbastanza per ora».

Mi dice Celine finendo quel che rimaneva nel suo bicchiere. Ha gli occhi arrossati e il vestito spiegazzato, ha bisogno di dormire.

«Non perdiamoci di vista ancora, ti prego, hai il mio numero, chiamami qualche volta, mi fa piacere ricordare com’eravamo e la tua voce è ormai l’ultimo legame che ho con il passato».

La accompagno alla porta, ignorando le promesse che mi escono dalla bocca, quella bara è già stata riseppellita per quel mi riguarda. Forse è sbagliato dimenticare, ma i ricordi possono ucciderti, è il nostro sistema di sopravvivenza, dobbiamo pur continuare a respirare qualcosa, anche l’aria più fetida che gira in un dato momento. Chiudo la porta alle mie spalle, non vedrò mai più Celine. Domani cambierò numero di telefono, non sarà mai così pazza per venirmi a cercare a casa e chissà se sarò qui quando tornerà. C’è ancora la cartella di quella donna sul divano, non la guardo nemmeno. Quando vado nel bagno per pisciare inevitabilmente lo sguardo mi cade sullo specchio. C’è un uomo sulla trentina davanti a me, un taglio sulla guancia e una faccia nemmeno troppo vissuta. Chi è? Sono io o forse è solo una stupida reazione chimica dentro i miei occhi? Siamo davvero quello che vediamo riflessi davanti a noi? E come ci vedono gli altri? Chi siamo davvero? Certe cose le decidi il giorno in cui cresci, e non cambiano più. Il fatto di ritenerti simpatico, bello, brutto, attraente, intelligente. Le decidi e basta, sono le prime cose che ti capitano in testa quando vedi il vero te stesso davanti allo specchio. Da un po’ di tempo, nel mio riflesso, non ci vedo altro che un corpo che sta ormai perdendo i suoi giorni migliori e che lentamente decade, da quando Sal se n’è andato almeno. Qualcuno bussa alla porta, mi lavo le mani, pensavo che Celine se ne fosse uscita definitivamente dal palazzo e dalla mia vita, chissà che cos’altro vorrà. Quando apro la porta la vedo impegnata a cercare qualcosa nella sua borsa, ne estrae un libro, conosco fin troppo bene quell’edizione.

«Scusami, mi sono dimenticata di chiederti una cosa, ci ho pensato tutta sera e poi mi sono dimenticata di farla. So che non sei tu l’autore, ma praticamente è come se fosse tuo, potresti autografarmelo? È stupido, ma vorrei la certezza che fossimo davvero noi».

Non sorrido, annuisco e le prendo la biro dalla mano. Dalla copertina c’è il titolo di quel libro che ha rovinato più di una vita, l’edizione è usurata dal tempo e dalle volte che è stata letta. Passiamo più tempo a cercare le somiglianze tra noi e i personaggi che a capire la storia che ci vogliono raccontare, come se ci fossero inevitabili legami tra la nostra vita e quella di un personaggio fittizio e un solo grande titolo che spieghi tutta la nostra esistenza. Il libro che mi porge è effettivamente la storia delle nostre vite, più di un romanzo generazionale o di un cd degli Interpol. Forse l’unico vero legame che abbiamo lasciato dietro le nostre tracce. Il libro del mio successo, il libro su cui ho firmato il mio patto col diavolo. Le mie mani stringono quella prima edizione economica, piuttosto rara da trovare in giro, i caratteri in grassetto tra le mie dita, quel titolo così sprezzante, non serve una superficie riflettente per capire chi sei, i nostri errori sono più veloci delle epifanie di un poeta. La mia condanna è racchiusa tra le parole del titolo, io sono lui e lui è me, e questa storia è il suo titolo e il suo autore: Specchi, il libro che Sal mi lasciò, come se cercasse di non farmi dimenticare che il giudizio finale con noi stessi è sempre una questione di riflessi.

FINE.

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