Spring Attitude 2014: cosa è successo

Lo Spring Attitude quest’anno aveva già fatto parlare di sè nei mesi che lo avevano preceduto annunciando un cast di altissimo livello, due serate di musica allo Spazio Novecento a Roma più un pomeriggio di assaggi musicali al sabato. Erano attesissimi Four Tet e Jon Hopkins, due must della musica elettronica internazionale, e di certo accanto a loro non sfiguravano i nomi di Gold Panda e Totally Enormous Extinct Dinosaurs. Qualche nome era venuto meno last minute: Giraffage aveva dovuto annullare il tour europeo e saltare la data romana che lo avrebbe visto come uno dei protagonisti della pomeridiana al Macro Testaccio; Saint Pepsi era rimasto bloccato negli Stati Uniti per un problema al passaporto a due giorni dal festival. Ma non ha avuto importanza: il cast era rimasto ricco, e si erano presto trovati degni sostituti.

Alla serata di preview del 22 Maggio è andato Riccardo Riccardi, già reduce dall’edizione 2013 dello Spring Attitude e ce ne ha raccontato bene: ospite a sorpresa quell’Illum Sphere che sarà anche protagonista della pomeridiana del sabato al Macro. Il vero e proprio weekend di elettronica si apre però al venerdì sera allo Spazio Novecento con lo spettacolo di Cosmo: uno dei pochi nomi italiani che si esibiranno sul palco. L’atmosfera è calda, il pubblico è a metà tra la premiere del grande evento e quello di nicchia da concerti indie. C’è la ragazza con la borsetta disegnata comprata al mercatino hipster e c’è Colasanti. Lo Spazio Novecento per il resto dell’anno è una discoteca glam, e di questo ce ne accorgiamo dalla sicurezza interna in versione bodyguard: in realtà l’atmosfera all’interno riesce comunque a restare abbastanza free. Quando Com Truise sale sul palco con tutta la sua stazza la sala inizia anche man mano a gremirsi di gente. Il sound è forte, corposo, non ancora ai livelli di ballabilità a cui arriveremo a momenti. Fuori a tratti piove, ma tanto c’è un terrazzo coperto dove si può andare a fumare. E la strada per scendere al piano terra, al Back Room stage ha solo un breve tratto all’aperto, e poi ti accoglie in tutta la sua intimità. Sta suonando Catching Flies, che ti culla in contemporanea a Com Truise. La musica arriva fino al salottino esterno: puoi goderti l’immensità della serata. Il problema è che di lì a poco al Main stage arriverà Derwin Schlecker, aka Gold Panda. È uno dei nomi forti della serata d’apertura, Com Truise e Catching Flies sono un ottimo diversivo d’introduzione, ma lui è il genietto dell’elettronica melodica britannica. Quello che in un certo senso ha avvicinato all’elettronica i duri e puri con pezzi come Marriage. Parte forte con l’ultimo disco ”Half of Where You Live” e ci regala anche i vecchi classici di ”Lucky Shiner”. Negli ultimi tempi Gold Panda si diverte a riarrangiare i vecchi pezzi, probabilmente stanco di dover portare in giro l’ennesima versione uguale di quelli meno recenti. Dal mantra di Brazil a estratti di ”Trust” la versione dell’ormai storico You ne esce, per esempio, stravolta nei tempi e nelle linee melodiche: in effetti già il passaggio tra i due dischi segna un abbandono della melodia pura da parte di Gold Panda e un’elettronica più sperimentale e ricca di effetti. In quest’occasione conferma di star preferendo questa strada alla prima, probabilmente avvicinandosi a un rapporto meno mainstream col pubblico.

L’altro re della serata è sicuramente Totally Enormous Extinct Dinosaurs, che accende di luci e suoni col suo dj set la pista. Non è gremito fino al punto di non respirare lo spazio (900) la prima sera, si sta ancora bene, si riesce ad arrivare nelle prime file senza la lotta libera che caratterizzerà la serata del sabato. Classe ’86, lo chiameremo TEED per semplicità (come si fa chiamare su Souncloud), il suo talento si avverte immediatamente. Mentre da Teed si balla a botte di remix di sotto Sun Glitters coi suoi suoni avvolgenti riesce ad incantare quelli che scendono al back room per dedicarsi a un momento chillwave, più sognante. Si va altrove con lui, uno stacco che è passaggio da un mondo a un altro senza consegna. Intanto di sopra TEED continua a passare pezzi e far ballare la gente, con le proiezioni degli schermi dello Spring che rincarano la dose del suo show, remixa i Disclosure meglio dell’originale e poi remixa anche un pezzo che mi farà stare a tentare di capire qual era per una decina di minuti senza scoprirlo. Brutta bestia la rassegnazione. Non c’è il tempo, perché i cambi sul palco sono veloci e arriva il canadese Egyptrixx che accende di suoni duri e techno l’atmosfera, riaprendo praticamente la serata daccapo.

Fuori dallo Spazio Novecento ci sono degli ottimi venditori di panini a prezzi popolari, anche Com Truise ne compra uno (con quel fisico non poteva che essere un buongustaio), mentre Gold Panda che ha l’aria tipicamente più affranta scappa via verso la California ignorando il venditore di panini (ma non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore). Puoi uscire dal palazzo dello Spazio Novecento, ma solo se ti fai timbrare dal buttafuori che è davanti all’entrata come un cane da guardia: il braccialetto del festival diventa così un po’ un optional. Dentro Egyptrixx continua intanto a bombardare la pista col suo suono che ha più qualcosa di tedesco che canadese, mentre Go Dugong accende la parte bassa della sala piccola. Alle 4,30 del mattino chi è uscito non può tornare dentro, stanno chiudendo. Probabile che ci sia una sovrapposizione tra una certa mentalità di gestione che resta tipica della discoteca (cosa che per altro è lo Spazio Novecento il resto del tempo) e che si scontra con quella dell’organizzazione del festival. In effetti esiste un problema che abbiamo già affrontato vis-à-vis in altri contesti con la musica elettronica in Italia: non c’è ancora la mentalità da clubber berlinese. Tuttavia lo Spring Attitude è riuscito almeno per quanto riguarda i live, le serate, il richiamo del pubblico, a creare l’atmosfera di cui stiamo parlando. E questo è meraviglioso.

Nella seconda serata c’è un’attesa quasi messianica per Jon Hopkins nell’aria. La si sente, la si respira, la si vive. È vero, probabilmente il nome di punta è Four Tet ma sembra che qui dentro stiano tutti aspettando l’inglese. C’è più gente: è sabato sera, la sala impazzisce, c’è un’afa incredibile, bisogna prendere inumani bicchieri di ghiaccio e alcol per respirare, fare avanti e indietro dalla sala al terrazzo a tirare boccate d’aria, scendere al back room, vedere che hanno sostituito Saint Pepsi con Populous (che fa la doppietta al sabato, perché era anche all’aperitivo in salsa elettronica al Testaccio), spogliarsi, ché in fondo stasera non piove, e vedere l’effetto che fa sulla folla Om Unit. Ora confesserò un mio problema e limite molto importante in proposito: quello con la musica dubstep infarcita di hip hop. Questo vuol dire che quello che potrei commentare a proposito di Om Unit è tutto qui: mi sarebbe piaciuto avesse fatto a cambio con Trust nell’ordine cronologico della serata. Su Om Unit comunque tutti sembrano impazzire, fa i buchi a terra: nel senso che il suo sound se lo senti immerso dentro la pista a un certo momento inizia a penetrarti dai piedi su fino alla schiena, come in un rituale vodoo di stordimento collettivo, e poi inizi a ballare in orizzontale, come preso da questa particolare magia scenica.

La realtà è che sto aspettando si faccia vivo l’autore del mio personalissimo primo posto tra i ”best album 2013”, e arriva come un vero signore sul palco, con le luci che richiamano la copertina dell’album Immunity. In quel momento sono fiorite le rose, direbbe Dino Campana. I visual sono meravigliosi, il punto è che lui inizia con un pezzo che risuona dentro come vera e propria musica classica dell’elettronica: Jon Hopkins suona Breath This Air. Lo senti dalle note del piano secche che battono contro la pelle, poi è tutta una questione di cerebralità man manco che Jon decide di riscaldarti. Partiranno i meravigliosi video sullo schermo di Open Eye Signal e Collider, un disco che dal vivo suona praticamente perfetto, però più vivo e sudato. L’ora di Jon Hopkins è travolgente. Dovrebbe fare da apripista all’ora e mezza di Four Tet, ma tecnicamente ha già vinto. [Chissà chi è andato giù a vedere Debruit nei momenti tra Hopkins e 4Tet]

Non si può certo dire che Four Tet non sia un furetto della notte: ci si preparava ad assistere a qualche suo colpo di testa o genialata come quando a Torino l’autunno scorso ha deciso di fare un outing per confidare al mondo ”I am Burial” (anche se durante la coda di un pezzo si sente l’eco di una voce lontana che ripete proprio qualcosa che somiglia alla parola burial). Arriva sornione, coi visual spenti e le luci a mille, e fa ballare tutti per quell’ora e mezza. Il sudore e il movimento accomunano tutto il pubblico, anche i baristi dietro il bar ballano e sudano mentre servono drink e sono meravigliosi.

La meravigliosa sorpresa capita con Giorgio Gigli al back room, che riesce a far continuare a ballare la saletta bassa dopo Hopkins e Four Tet (e probabilmente qualcuno veniva anche dalla tripletta con Om Unit). Gigli è bravo, remixa addirittura lo stesso pezzo che ha remixato Teed la prima sera e che io non riconoscerò neanche la seconda volta. Ci sa fare a coinvolgere la sala, e qualcuno non se ne allontana nonostante di sopra ci sia il dj set finale di George Fitzgerald che dona un tocco house al fine serata. In un’intervista Gigli ha detto: ”reazioni chimiche nel cervello producono stati d’animo, rispetto a questi, vengono a crearsi i suoni e le melodie”. Probabilmente è questo che è successo allo Spring Attitude, in poche parole. Che poi è vero anche il contrario: suoni e melodie creano reazioni chimiche nel cervello, non sappiamo come e perché, e non possiamo controllarle. Ci sono e basta.

Reazioni chimiche come quelle dello Spring Attitude Festival fanno bene al cervello.

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