Storia Aperta | Il secolo breve di Davide Orecchio

Noi che studiamo i bambini diacronici, navighiamo solo memorie, andiamo sotto costa sulle nostre lance, avvistiamo gli scogli con la cautela dei naufraghi, ma i bambini diacronici sono navigatori del tempo, prendono il largo sui catamarani, tengono testa ai giorni in burrasca, superano le onde delle ore increspate, porgono le rande alla direzione che cercano, si fanno forti della forza del tempo, vanno veloci con la sua rapidità, non si scoraggiano nella sua bonaccia, loro disancorano, salpano e approdano, frangono i flutti del verdeazzurro, fanno rotta verso i minuti abissali, corrono il mare sul fondale dei mesi, sanno torcere il tempo, strappano ai secondi la lentezza del viaggio, poi nelle settimane corrono come la luce, mentre noi li guardiamo loro fanno le storie, mentre noi li ascoltiamo loro vivono storie, usano il tempo e il tempo si consuma.

Come si racconta il secolo breve? Come si può tracciare il percorso di una storia che ci riguarda tutti ed è inscritta nella parabola di un paese e delle generazioni che ne hanno attraversato guerre e cambiamenti? Come si mescola il privato e il politico, la vita quotidiana e le sue spicciole ambizioni, le speranze, le cadute del singolo e le tragedie della Storia?

È a queste domande che sembra rispondere Davide Orecchio con il suo Storia Aperta – pubblicato oggi da Bompiani. Un romanzo – il suo terzo – che racconta la vita di Pietro Migliorisi e che narra, insieme alla sua storia, la traccia in filigrana attraverso cui leggere il filo nascosto della Storia Italiana.

Chi è Pietro Migliorisi? Migliorisi è al contempo un archetipo e un paradigma, un personaggio reale e un fantasma che Davide Orecchio insegue da tempo. Storico di formazione e scrittore per vocazione ma sempre legato a doppio filo alle testimonianze, alla ricerca, alla fonte sorprendente di storie che sono gli archivi, Orecchio esordisce nel 2011 con la raccolta di racconti Città distrutte: sei biografie infedeli (Gaffi, 2011 quindi Il Saggiatore, 2018). Una delle sei biografie s’intitola proprio Episodi della vita di Pietro Migliorisi (1915-2001) – “ne racconterò frammenti” scrive “presto sarò all’altezza dell’Intero. Domani. Non ora. Aspettatemi”. E, ancora, Migliorisi torna in un altro racconto – Il mondo è un’arancia coi vermi dentro – contenuto in Mio padre la rivoluzione (Minimum Fax, 2017). Qui, nelle note, Orecchio scrive: “Dedicarsi a una vita, comprenderla, poi dirla: può essere la fatica più entusiasmante, la più longeva. Serve la pazienza del tempo. Si sfrutti il tempo fino a poco prima che tutto finisca. Anni fa, mentre ritraevo una vita ispirata alla vita del padre, mi chiesi: «quando racconterò Pietro Migliorisi? Me lo domando da molto mentre accumulo materiali, fonti edite e inedite, primarie, secondarie e annuso l’epoca come se un archivio ne custodisse gli aromi»”.

Soldati italiani in Etiopia nel 1936

Pietro Migliorisi è l’alter ego letterario del padre di Davide, Alfredo (Enna 1915 – Roma 2001) la cui parabola umana ben s’iscrive a quella generazione che compì il lungo viaggio attraverso il fascismo: dall’adesione giovanile su posizioni frondiste, quindi l’irrequietezza col passare degli anni rispetto a un regime che aveva tradito – secondo alcuni dei suoi figli – i propri ideali, per giungere al riscatto della Resistenza (Orecchio fu organizzatore militare di zona dei Gap a Roma) fino all’iscrizione e la militanza nel Partito Comunista.

Questa traiettoria – reale nella storia del padre di Orecchio – si fa ideale nella storia di Migliorisi e di un padre più generico, figura cui la letteratura dà un respiro più ampio e una prospettiva più profonda.

E ora ascoltiamo il racconto di Pietro, alziamo l’audio dei nostri monitor, puliamo le tracce sonore, la sua voce ha paura ma è nitida, lasciamo che sia Pietro a parlare, poi gli risponderemo dal nostro tempo al di là della storia, forse nel suo tempo non ci sentirà, ma se lo farà e parlerà ancora, ci arriverà la sua voce.

Eccolo, allora, Migliorisi, siciliano di Messina, prima fascista, la passione per la scrittura e il giornalismo; eccolo scalare i ranghi del regime per essere travolto dall’orrore della violenza gratuita, volontario in Abissinia quindi dentro l’incubo della disfatta in Albania. Coinvolto nell’attentato per uccidere Galeazzo Ciano e recuperare l’illusione dello spirito originario del Fascio. Il confino e la guerra in Sicilia.

Un’altra vita: la Resistenza, non partigiana sui monti, ma urbana, cittadina, romana, via Rasella a disinnescare la ferocia del lupo nazista, a provocarne l’atroce rappresaglia. La fine della guerra, l’alba di un nuovo mondo, la bandiera rossa, il Comunismo come nuova figura paterna, una nuova speranza, famiglia internazionale in cui crescere e riconoscersi; la carriera come giornalista, l’Unità e il quotidiano nuovo, i dilemmi di Budapest e Varsavia, la svolta degli anni ottanta, la rinuncia al nome, la caduta del muro, l’avvento di Berlusconi e le nuove destre di nuovo al potere. E sullo sfondo di una vita piena, come un leitmotiv incessante che dà tormento, le domande ossessive: “Sono un bravo fascista? Sono davvero rosso, non sono più fascista?

Dentro la linea della Storia, le storie personali: una moglie, Michela, che gli dà un figlio che lui non vedrà crescere – anche lei siciliana e fedele alle camicie nere non vorrà perdonargli il tradimento d’ideali – la passione per la scrittura, quel gigante d’inchiostro che lo divora ma che non lo porterà alla realizzazione attesa; e allora: carte su carte, e manoscritti, romanzi mai pubblicati e una voce, la sua, che non trova spazio se non negli angusti apparati di partito.

Dentro la Storia, le storie pubbliche che si fanno vera e unica cartina di tornasole dentro il sogno mancato di un paese che poteva essere e non è stato e, naturalmente, non è.

Il ritrovamento del cadavere di Wilma Montesi sul litorale ostiense

Ragiona su questo: sei proprio sicuro di avere ucciso il fascismo? Ora che vedi il marchese salire sul banco degli imputati, che pensi? Forse hai tagliato la coda di una lucertola. Forse hai malinteso il tuo fascismo per il fascismo degli altri, quando è solo il primo che hai ucciso.

Storie pubbliche anche apparentemente marginali – come l’omicidio di Wilma Montesi – si trasformano, attraverso la lente giornalistica del protagonista, nel paradigma di un’Italia che non ha fatto i conti col suo passato mettendo in luce il mondo gaudente e corrotto della cosiddetta aristocrazia nera, della politica romana e in genere dei ricchi e potenti della Capitale. Quasi vent’anni più tardi sarà il tentato golpe di Julio Valerio Borghese, misteriosamente fallito nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970, a riaprire la scatola nera su un passato non più tale.

Per cinquecentosettanta pagine Storia Aperta ci immerge nella vita di Migliorisi e nelle atmosfere di un secolo. Lo fa attraverso ventiquattro capitoli – rigorosamente in numeri romani – nei quali Orecchio racconta non solo i diversi periodi nella vita di Migliorisi ma mescola letterariamente le carte, ipotizzando scenari diversi, versioni a più voci, riportando i “fatti nell’interlinea tra l’eventualità e la certezza, e intitola ogni voce: possibilità”. Il tutto attraverso una ricerca molto forte e solida tanto nella scrittura – che ricorre spesso a termini ricercati – quanto nell’alternanza dello stile: ora più arioso ora invece frenetico, ossessivo, costituito da frasi – nemmeno – da frammenti di frasi puntate che, secchi, colpiscono il lettore, dando angoscia e ritmo nei momenti più importanti della storia. E lo fa non rinunciando – soprattutto nella storia con Michela – all’affabulazione narrativa che culmina (ma non possiamo aggiungere nulla) in un finale sorprendente.

La prima pagina de L’Unità sull’attentato a Palmiro Togliatti

Quella che segue è una storia aperta di personaggi e di testi, e ospita molti autori […]è un romanzo che si nutre di parole realmente scritte e pronunciate dai suoi protagonisti eppure, nel riportarle, necessariamente le reinventa e le compone in un disegno che ha con l’indagine storica una relazione narrativa: non la sola possibile ma certamente quella che, più di altre, rende per me vitale il rapporto col passato.

Le restanti cento pagine del libro sono, invece, dedicate alle Fonti e agli Autori e Opere: Orecchio ci conduce dentro al suo metodo di lavoro, già anticipato dalla nota iniziale. Storia Aperta è, infatti, un lavoro che prova a raccontare la storia del padre e, con essa, del Paese, attraverso una narrazione di fantasia che, però, ha i piedi ben saldati nella realtà storica grazie a un lavoro capillare di ricerca e restituzione delle fonti. Ecco allora che nulla è lasciato al caso e ogni cosa – sensazioni, episodi, eventi, atmosfere – sono ricollegabili a testi preesistenti, a manuali, ad articoli di giornali, alle tante opere manoscritte lasciate da Alfredo Orecchio che rappresentano, certamente, l’ossatura del racconto ma che si aprono a nomi e fonti tra le più disparate: dalle più nobili – Angelo Del Boca, Ennio Flaiano, Carlo Cassola, Giorgio Amendola, Franco Calamandrei, Pietro Ingrao, Miriam Mafai, Giaime Pintor – ai tanti altri – Mario Alicata, Rosario Bentivegna, Luca Canali, Carla Capponi, Felice Chilanti a un tempo reale e immaginario, Fausto Coen, Fidia Giambetti, Emilio Sereni, Ruggero Zangrandi e tanti, tantissimi altri.

Ma cos’è che, in fondo, è così importante nel racconto della vita di Pietro Migliorisi, di un nostro padre, di un uomo che ha attraversato, con le sue incongruenze – sue e del secolo – il Novecento?

Quella di Migliorisi è una storia che ancora non si è chiusa, che guarda al passato e nel passato cerca ragioni, umane, umanissime. “Cercavo un padre che mi insegnasse la rivolta” dice a un tratto Migliorisi, lo affida a un diario più probabilmente, perché – lo dirà ormai vecchio – “scrivere è ancora l’esperienza più esaltante della mia vita”. Tutta la sua esperienza di uomo è esperienza di ricerca, di questo “giovane di certezze, incerto” con “l’ossessione dei capi e dei padri” figlio dei suoi tempi che “a quindici anni è già poeta a Messina ed è giornalista, mostra le sue opinioni, i suoi versi […] corre sulla pagina con l’entusiasmo e con l’intolleranza”. Figlio dei suoi tempi – tempi sempre diversi – che si rende conto di quanto sia “difficile uccidere ieri” e vive nella “paura di non avere tempo per il riscatto”. Un ragazzo, un uomo che cerca un padre e sempre lo perde: Mussolini prima, Stalin poi. E ancora Togliatti e Di Vittorio, l’Unione Sovietica, il PCI, a ogni anno una rivoluzione a cancellare certezze, ogni anno un cambiamento. Padri che rinnegano questo figlio confuso, questo soldato indisciplinato che sogna il grande romanzo ed è incapace di scriverlo, che si accorge, seguendo l’omicidio di una ragazza – così estremo, così particolare da restare impresso nella retina del grande regista riminese che ne farà simbolo nel capolavoro La Dolce Vita – di non “aver ucciso il fascismo, se non quello che hai dentro. Esistono ancora le creature della menzogna. Vivono i figli della violenza […] Non serve a molto che la notte tu sussurri che non sei più fascista. Fuori si schiera un esercito. Quelli che vengono dal regno fanno carriera. Quelli che l’hanno combattuto, la perdono”.

Confessavi al diario: non sono riuscito a diventare un buon comunista esattamente come non mi riuscì di diventare davvero fascista. Poi cancellavi la frase tre volte. Una riga. Un’altra riga. Uno sgorbio. Nascondevi la frase ma l’avevi scritta.

Storia Aperta è la storia di un tradimento, di un secolo verso i suoi figli, d’ideali che sono scivolati via tra le dita senza che avessero la forza di quella rivoluzione tanto attesa. Allo stesso modo è il tradimento dei figli nei confronti di un secolo che pure aveva offerto le strade del possibile cambiamento: “Parlavi della rivoluzione” dice il figlio al padre “Aspettavi la rivoluzione. Nel regno. Ma non la facevi. La chiedevi al tuo regno”. E ciò che è stato nel regno fascista non vivrà sorte migliore nei decenni successivi. Se la Resistenza, nel suo essere azione, sembra essere la scintilla che porterà al cambiamento, gli anni a venire saranno il teatro di un’illusione, di una libertà condizionata prima alle regole ferree del partito quindi alla sua inesorabile resa dinanzi a un mondo profondamente corrotto che non sente più sulla propria pelle i segni di ciò che pure è stato.

Nella parabola di Migliorisi, da giovane promettente folgorato sulla via dell’azione, figlio forse innocente di un tempo che ne stritolò tanti – “quindicenni sbranati dalla primavera” come cantò De Gregori ne Il Cuoco di Salò – eppure capace di quel riscatto, la resistenza partigiana prima e la militanza comunista poi, si coglie la parabola di un paese che si è perduto, che non ha saputo fino in fondo fare i conti con il proprio passato e che, invece, a quel passato, a un certo punto, ha guardato con bieco interesse per non spezzare i fili di una commistione, di un volere comune, di un tempo immobile, di questo “viaggio negli anni” di cui resta un finale non scritto, una speranza, una via d’uscita che i padri non vedranno ed è affidata ai figli.

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