Storia di un prodigioso talento | Intervista a Cosmo Sheldrake

Cosmo Sheldrake pronto a conquistare l’Italia con l’album The Much Much How How and I. Cantante, compositore, produttore, polistrumentista e musicista. Dal curriculum non si direbbe ma l’artista britannico Cosmo Sheldrake ha solo 28 anni. Ne aveva ancora meno quando ha composto, nel 2017, la colonna sonora di Moving art, serie Netflix sulla natura. Il 6 aprile ha debuttato con il primo disco Much Much How How e I per Transgressive Records che sta presentando in giro per il mondo. Ha già collezionato sold out in città importanti come Vienna e Monaco e a inizio maggio arriverà in Italia per tre date: il 9 maggio al Blackmarket di Roma, il 10 appuntamento a Serraglio Milano e l’ultima tappa italiana l’11 al Freakout Club di Bologna. Lo abbiamo raggiunta per un’intervista alle porte del mini tour italiano.


Un artista poliedrico e prodigioso. Come vivi la pressione di essere così giovane e così completo? 

Certamente non mi considero in alcun modo completo. Ci sono sempre così tante cose da imparare e settori in cui crescere. In realtà penso che sono le pressioni che ho messo su me stesso a essere le più difficili. Per esempio cercare di trovare il tempo per tutte le cose che vorrei aver fatto.

Qual è il ruolo che senti più tuo?

Non lo so, è molto difficile da dire. Penso di sentirmi più a mio agio quando sono a casa con il mio ritmo, cucinando e facendo musica nel mio studio, o forse cantare in un grande gruppo di persone. Per me è il posto dove puoi scioglierti, più di una sensazione euforica. È quando diventi parte di qualcosa di molto più grande di te.

Nella tua famiglia, la musica è sempre stata molto importante. Quali sono state le influenze musicali?

Molte influenze diverse. Io sono cresciuto suonando piano blues e la mia insegnante era ossessionata dalla musica di New Orleans, quindi ha avuto un grande impatto su di me. Anche mia madre insegna canto armonico della Mongolia così ho ascoltato tanta musica proveniente dall’Asia centrale che amo. Poi mio padre, che suona il piano e ha sempre suonato Bach, ha inciso in qualche modo. Oltre a molta musica sperimentale e materiale sonoro vario. Credo di essere stato influenzato dal lavoro della musica, dai musicisti e dal loro rapporto con il campionamento.

The Much much how how and I è il titolo del tuo album di debutto. Puoi spiegarci questo titolo?

Stavo seguendo un workshop che un mio amico stava conducendo a Washington, in America. Era sulla poesia oracolare ed era influenzato dalla tecnica del cut-up di William Burroughs. Avevamo libertà di scrivere su un argomento per un po’ e poi tagliavamo tutte le parole e le passavamo al nostro vicino che le ricomponeva e le incollava in una poesia usandone quante ne voleva. Nel mio caso, il mio amico Evan mi ha restituito la poesia e l’ultima battuta era The Much Much How How and I e pensai che se mai avessi fatto un album avrebbe avuto quel nome.

Un album per cui ci sono voluti tre anni di lavoro, in cui spicca un particolare uso dei suoni naturali come uccelli, fiumi, vento. Insomma, l’innovazione di questo album è l’acustica dell’ecologia. Come riuscirai a portare tutto questo live sul palco?

È davvero una bella domanda e quello che sto cercando di capire. Ho deciso di scrivere senza limitarmi a ciò che potevo fare esibendomi da solo. Ma questo mi ha portato a essere un po’ in una posizione difficile. Uso campionatori, un pedale loop e versi, bob e giocattoli per cercare di riportarlo il più possibile nella realtà. Mi piacerebbe anche mettere insieme un ensemble, un giorno vicino, e suonare con una band di 15 pezzi.

Una curiosità. Hai raccontato che spesso porti con te un registratore. Quanti suoni differenti hai raccolto nel tuo archivio di registrazioni?

Mi piacerebbe avere sempre un registratore con me. Provo a portarne uno ogni volta che viaggio o vado dovunque so che ci saranno bei suoni. Ho comprato un registratore molto grande, con bei microfoni. Ma il lato negativo è che non è molto pratico e richiede più tempo per l’installazione. Quindi significa che non ce l’ho più in giro, che è una grande vergogna. Ho un sacco di suoni nel mio archivio, non ho modo di sapere quanti perché non sono particolarmente organizzato nel conservarli.

Per questo album, hai lavorato con il noto musicista britannico Matthew Herbert. Com’è stato? Cosa ti ha lasciato questa collaborazione?

Lavorare con Matthew è stato davvero divertente. Mi piacerebbe pensare che mi ha lasciato una maggiore capacità di apprezzamento per le sottigliezze del missaggio e spero che le mie orecchie ne siano uscite leggermente più raffinate.

Wriggle è l’ultima canzone che hai scritto per l’album nonché il quarto singolo. Tu stesso hai detto: “Tra gli altri suoni, incorpora la koto drum giapponese, la percussione della banda musicale, un usignolo del Kent e una miriade di strumenti a fiato, tra cui un contrabbasso, uno degli strumenti più bassi dell’orchestra. È una canzone che parla della celebrazione della vita nella speranza che sia stata ben vissuta”. Cosa nascondono le altre canzoni?

Ooooooh bisogna aspettare e vedere. Un sacco di piccoli angoli nascosti, passaggi e vortici. Spero davvero che vi piaccia.

In maggio il tuo tour arriverà in Italia. Cosa deve aspettarsi il pubblico italiano?

Spero che si divertiranno. Faccio molta improvvisazione quando mi esibisco così è sempre diverso. Ciò significa che gli spettacoli dipendono sempre dall’energia che la folla porta in concerto. È un elemento imprevedibile che rende più eccitante per me la performance. Ma ammetto che non vedo l’ora di suonare in Italia, ho suonato a Milano solo una volta e mi sono divertito molto!

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