Subterranean Voices #4: SOLKI

Solki // Foto di Elisa Parigi

Subterranean Voices è l’estensione naturale della rubrica che ogni mese raccoglie le uscite più interessanti del panorama underground italiano ed europeo. In questo numero parliamo con Serena Altavilla, Lorenzo Maffucci Alessandro Gambassi, rispettivamente voce, chitarre e batterie di Solki, si definiscono dream punk, vengono dalla Manchester d’Italia e sono praticamente inarrestabili. Peacock Eyes, la loro seconda creatura è uscita lo scorso aprile per Ibexhouse, con la collaborazione di Alessandro Fiori (Mariposa, Amore, Craxi, oltre alla carriera solista), ci ha colpito per la sua forte attitudine e un sound inedito nel nostro panorama musicale. I Solki si raccontato in un’intervista fiume, come piace a noi.

 

Parlando del vostro disco abbiamo usato il termine di attitudine, maturata negli anni e nei tanti progetti di cui avete fatto parte, ma come nasce il progetto Solki? Mi spiego, avete tutti e tre fatto parte di gruppi molto diversi fra loro, che forgiano direttamente la natura di Peacock Eyes, ma c’è più di una confluenza di esperienze, per come cambia e la scelta di fare del punk, ovviamente. Cosa vi ha formati?

Serena: Difficile dire cosa formi una coscienza musicale, forse ogni forma e fonte sonora che circonda delle orecchie, direi anche tutto quello che sfiora la pelle; come gatti percepiamo e sentiamo piacere o fastidio attrazione e repulsione o tutte e due insieme e chissà quanto altro. Quello che ha influenzato me sono tanti suoni, anche delle immagini e qualche visione, le voci che mi hanno coccolata e le voci che mi hanno sgridata. Le voci dei nonni per esempio sono una traccia, un solco indelebile, certi modi di usare la voce semplicemente con dei suoni netti e pieni di significato, con dei dialetti di cui sentivo la melodia, la nenia e del significato non mi interrogavo troppo, scorrono in me sempre, costantemente. Per me la schiettezza, la ruvidezza e la dolcezza di questi suoni sono stati un punto di partenza indiscusso verso il punk. Come anche le voci di Gabriella Ferri o Maria Callas che si sentivano a casa non mi hanno lasciata indifferente per nulla, sentivo l’irriverenza e la forza e seguivo quelle tracce fantastiche. Questa cosa forse ha fatto sì che da ragazzina avevo un unico cd con dentro Fugazi e Liza Minnelli, che mi piaceva tantissimo.

Lorenzo: C’è una cosa di cui soffriamo ed è il rischio di cadere in qualche equivoco dettato dalla distanza tra essere ed essere etichettati. Essere sfuggenti, ninja al parco giochi, è un vanto e anche una croce. Questo è senza dubbio un tratto comune alle nostre esperienze musicali pregresse: difficoltà di categorizzare uguale difficoltà di trovare collocazione uguale ambienti che diventano inespugnabili. Per un gruppo musicale indipendente della nostra portata molto spesso è determinante la velocità con cui il gruppo stesso e le persone che ne veicolano il mestiere (spettatori, ascoltatori, altri addetti ai lavori) sono in grado di rispondere alla domanda “che musica fai/fanno?” Hai una certa sonorità o una certa altra, un certo vocabolario o un certo altro, una certa altezza della tracolla della chitarra, una certa quantità di tamburi, una certa impostazione grafica della copertina, una certa abilità con i social network, un certo canone di abbigliamento eccetera. Se ci sono uno o più elementi che stridono sul tavoliere di un libro di regole (scritte o non scritte) è molto probabile che il gruppo in questione faccia fatica, o impieghi troppo tempo, a rispondere alla domanda “che musica fai?”. Vestendoci da ufficio stampa ci siamo inventati la definizione “dream punk” perché è abbastanza precisa e sintetica, ma si tratta comunque di un tranello. La ricerca di una somiglianza, di una filiera di riconoscibilità, di una razza equina o canina, determina e affligge l’esistenza di un gruppo musicale che nella nostra epoca (di guerra o di anteguerra) si incarica di tirare a campare con questa attività. Noi se si può, finché si può, per quanto si può, cerchiamo di non deludere noi stessi sulla base di un’approssimazione. Facciamo fatica. Anche per questo forse abbiamo una canzone che ruota intorno a un equivoco preciso: sul bagnasciuga di una spiaggia un sacchetto di plastica abbandonato viene scambiato per una medusa.

Alessandro: I Solki sono nati senza un progetto, abbiamo semplicemente iniziato a fare delle prove insieme; ci siamo conosciuti grazie alla musica, un collante che stando insieme ci è piaciuto iniziare a produrre anche tra di noi. La mia formazione musicale riassunta potrebbe suonare così: cantare con mia mamma, mia nonna e all’asilo, ascoltare volontariamente e involontariamente il rumore dei telai delle tessiture vicino a casa mia, ascoltare vinili di musica 60/70/80 dei miei genitori, premere con incoscienza su una tastiera Casio regalatami a 7 anni circa (anno in cui, per puro caso, mio padre porta a casa il cd di Nevermind), aspettare che mia cugina mi facesse una nuova cassetta con la musica dei suoi 45 giri dei cartoni animati, rubare cd techno e trance a mio cugino negli anni successivi, chiedere e ricevere in regalo una chitarra a 14 anni e studiarla male per due, conoscere i Sonic Youth. Formare il mio primo gruppo a 17 anni in cui cantavo e suonavo la chitarra, scoprire che al mondo c’erano i DEVO, formare un altro gruppo a 24 anni circa in cui suonavo il basso distorto e iniziare a percuotere cassa rullante e charleston tre anni fa con i Solki.

 

Foto di Claudia D’Aliasi

 

Peacock Eyes sa raccogliere certe tracce di ruvidità che diamo al punk ma è un album che ha tratti anche malinconici, a volte quasi sognanti, che tendono ad arrotondare quel suono volutamente spigoloso in certi brani. Due identità che, ancora una volta, si fondono insieme. Quali suggestioni vuole portare a chi lo ascolta?

S: Sarei curiosa di conoscere le suggestioni che causa questo disco, io ho sicuramente le mie ma questi pezzi non raccontano storie precise, attraversano tanti umori e gli umori sono qualcosa di gassoso, a volte è un gassoso esilarante altre volte più tossico, in ogni caso liberatorio e ci vogliono tante finestre aperte, che con le buone o le cattive cerco di aprire. Sono attraversamenti di tempeste fatte di domande, risposte mai ascoltate, preghiere e tutto quello che in quel periodo mi ha attraversato, avevo cose erano rimaste troppo a lungo in un fondale e avevano bisogno di essere urlate dalla cima di un cucuzzolo.

A: Non credo sia un disco pensato per dare delle suggestioni, sono più delle suggestioni messe dentro a un disco; durante il periodo di realizzazione dell’album non ho pensato a cosa volevo che si sentisse, l’urgenza è stata cercare di suonare quello che sentivo. Malinconie sognanti o sognate e spigoli di furia sono sicuramente sensazioni che hanno attraversato questo album nella sua realizzazione.

In studio avete lavorato con Alessandro Fiori che, certo, di attitudine ne ha da vendere, e suona anche con voi nell’album. Com’è nata l’idea di collaborare con un autore come lui? In che termini ha aggiunto qualcosa a ciò che avevate in mente all’inizio?

S: L’idea di avere Alessandro come produttore è stata molto spontanea, lui aveva fatto uscire il primo disco dei Solki credendo in noi e sognando con noi. Per me è stato bellissimo vederlo lavorare sui brani, registrando, sovraincidendo e mixando con tutto il punk e l’eleganza di cui è ricco. Mi ricordo bene l’effetto che mi fece vederlo per la prima volta esibirsi una decina di anni fa, aveva una luce intorno fatta di talento e irriverenza.

A: Alessandro Fiori ha fatto uscire il nostro primo lavoro nel 2014, spiegandoci che quella prova registrata era in realtà un disco. Da quel momento Ibexhouse è diventata anche la casa dei Solki e chiedere ad Ale di registrare Peacock Eyes è stato naturale. La sua produzione è stata discreta e magica, è stato come stare tutti insieme in una tenda fatta di plaid a disegnare con i pastelli.

 

 

Se ascoltiamo adesso il vostro primo album, Sleeper Grele, vediamo come tante cose coincidano e abbiano trovato la quadra finale. Una direzione forte su cui muovere le diverse ambientazioni che si succedono. Cos’è cambiato?

S: Questo secondo album ha avuto una genesi diversa dal primo, fatta di pieni e vuoti, raffiche di ventate forti alternate a relax e tempi di riflessione più goduti. Il primo era come uno strizzamento forte degli occhi e le dita incrociate, in Peacock Eyes questi occhi si sono aperti e lentamente ambientati alla luce. Ci siamo presi il tempo di sciogliere dei nodi sospesi, specialmente nei testi verso cui ho un rapporto più lento e sempre sull’orlo di un sonno profondo; come per tutti i nodi ci è voluto balsamo, pazienza e qualche rastrellata.

L: Ci fa piacere che tu abbia individuato una quadratura tra il nostro primo disco e il secondo, perché apparentemente sono molto distanti negli esiti. In effetti una differenza sostanziale tra Sleeper Grele e Peacock Eyes sta nel fatto che il primo era un riepilogo di una estate in sala prove che all’inizio dell’autunno abbiamo provato a cristallizzare in una registrazione senza una destinazione precisa; il secondo invece si è dipanato nel corso di un anno e ha avuto, fin dall’inizio, l’obiettivo di diventare un disco. Il percorso è stato uno slalom speciale che ha raccattato tante idee rimaste sepolte nella neve nelle stagioni precedenti: frammenti di discorsi musicali, testi. Questo materiale lo abbiamo trattato e ricomposto e si è rimarginato nella forma delle nove canzoni che sono andate nel disco.

A: Sleeper Grele come ho accennato è una prova registrata di pezzi che Serena aveva scritto e a cui aveva dato una forma suonata con me e Lorenzo; quella prova, una volta ascoltata da Alessandro Fiori è diventata un disco. Peacock Eyes è stato scritto e suonato con l’idea che sarebbe diventato un disco; questa “premeditazione” credo sia stata il cambiamento più grande.

In che modo ognuno di voi si approccia al progetto? Siete tutti e tre musicisti, come funziona il vostro lavoro sui testi e la creazione delle canzoni e i loro arrangiamenti?

S: Dipende, ogni canzone ha una nascita tutta sua, di solito porto in sala prove o dove capita brandelli di melodie e da lì Lorenzo e Alessandro ci si divertono sopra, sotto, tutto intorno, come gli pare, io mi accanisco su una corda della chitarra e giochiamo insieme a farla diventare una canzone; a quel punto si crea un panorama con un clima e questo influenza il testo che spesso è successivo, di solito parto da un suono che poi diventa una parola e che poi diventa una storia fatta di tanti occhi.

A: Non so se dire questa cosa può rendere l’idea ma per me è come quando guardavo alla televisione “Giochi senza frontiere”, d’estate, a sedere sul pavimento perché faceva caldo sul divano. Più che l’approccio è come mi sono sentito quando ho iniziato a suonare la semplificazione di una batteria; ed è così che mi sento ogni volta che suoniamo. Una canzone dei Solki nasce dalle melodie e dalle parole di Serena, Lorenzo ricama, io cerco di non lasciare troppi strappi.

 

 

Prato è stata chiamata la Manchester d’Italia, per via dell’espansione delle sue industrie tessili ma, oltre al panorama, sembra esserci qualcosa di più, ed è qui che ritorniamo al concetto di attitudine. Com’è crescere in una città così? Cos’è rimasto sempre dopo tutti i tour e i viaggi che ognuno di voi ha fatto, e cosa è finito in Peacock Eyes?

S: Prato ha un fiume, il Bisenzio che è una vena azzurra e verde dentro la città, è la parte che preferisco; sicuramente c’è moltissimo di me che abito qui e anche di me che qui, a volte, non ci voglio stare. Sono cresciuta in un grosso condominio rosa pastello in una strada piena di condominii, stanzoni, uffici e banche dalle architetture azzardate e spigolose che dalle 5 del pomeriggio si svuotavano e lasciavano la strada vuota e silenziosa se non fosse stato per i telai degli stanzoni dove la luce era sempre accesa e dove tante persone cinesi lavoravano.

A: Sono cresciuto nella periferia abbastanza estrema di Prato, dove da piccolo pensi che già prendere l’autobus per andare in centro sia epocale per quei 35 minuti di viaggio e dove, da adolescente, la l’autobus viene sostituita da motorini e auto di ragazzi più grandi che vengono usate per stare ferme al bar a chiedersi cosa fare della serata. La “Prato” in cui sono cresciuto, a parte i telai, ha ben poco a che fare con Prato. Ho avuto la fortuna di abitare a un paio di chilometri dal Cencio’s club, in cui fuggivo la stasi del bar per assistere ai primi concerti della mia vita; l’altra fortuna è stata vivere in mezzo ai campi e conoscere intorno ai 16 anni i Gulu Locus, che avevano una sala prove in un casolare vicino a casa mia e mi dissero che potevo andare a farci delle prove se volevo.
Non so se ho capito bene l’ultima domanda ma se quello che vuoi sapere è se c’è qualcosa di Prato che è sempre rimasto dopo viaggi e tour la risposta è: la Calvana. In Peacock Eyes credo che di Prato ci possa essere forse il vento.

Per ciò che fate siete un’eccezione nel nostro panorama. Cantate in inglese e fate punk, più Manchester che Prato?

S: Io invece penso proprio che si senta che siamo italiani e sinceramente lo spero, nelle armonie, nelle melodie, o anche in un uso non proprio di una lingua meno complessa dell’italiano che in un modo o in un altro entra nelle orecchie presto, semplice e schietta ancora una volta come piace a me.

L: Cantare in inglese ci è foneticamente più comodo, non ci solleva dalla responsabilità di un significato ma ci aiuta nella pratica a cavarlo fuori dalle teste e cacciarlo dentro una canzone. Prato è una città geograficamente strategica per chi fa musica in tour nel nostro paese lungo e stretto perché ci rende più o meno equidistanti dal nord e dal sud. Inoltre si trova al centro di un agglomerato molto denso che definisce una specie di gigantesca cittadina di provincia che comincia a Firenze e finisce a Pistoia. In questa pianura si è cresciuti in maniera abbastanza usuale, orientandoci verso Firenze quando era il caso (qualche concerto da ascoltare o da fare) e senza molti grilli per il capo. Come si sa e come ci si immagina, la provincia ti ammazza e ti salva. Fino a questo punto sempre in provincia abbiamo vissuto, e questo punto di vista ci fa godere del panorama affascinante di una metropoli e contemporaneamente ce ne mostra gli aspetti grotteschi, autoconclusivi. Ci sono città nelle quali si ha l’illusione di poter campare e godere per sempre senza mai uscire come in un’isola bonificata in uno stato di appestati. Da altre città, come Prato, è prescritto che si tenda ad uscire e rientrare come attraverso una porta girevole. Di volta in volta ci si presenta con dei doni, ci si presenta a mani vuote, si ruba un po’ di frutta o un giocattolo e ce lo teniamo stretto fino al prossimo tour.

A: Ci piace tanto suonare in Francia, e una volta a Cherbourg ho pensato che la Manica si attraversa veloce anche se i tunnel lunghi mi fanno un po’ ansia, quindi forse ci piacerebbe anche suonare a Manchester.

 

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