Tatami: il coraggio delle sportive iraniane

Nel judo è questione di istanti: basta una presa ben assestata per mettere k.o. l’avversaria e accorciare le distanze dalla vittoria del torneo, ma bastano anche solo una distrazione o un piccolo errore per perdere e mandare a monte i sacrifici e la lunga preparazione che ti hanno portato fino a lì. Se per di più si gareggia per la Repubblica Islamica dell’Iran le cose si complicano: un passo verso il podio può significare non rivedere più la propria famiglia, messa in pericolo match dopo match. Cosa scegliere? La gloria o la salvezza dei propri cari? Questo il bivio in cui si trova intrappolata Leila, protagonista dell’intenso “Tatami – una donna in lotta per la libertà”, film rivelazione della scorsa edizione del Festival di Venezia. La pellicola è stata proiettata in anteprima da diversi cinema italiani in occasione dell’8 marzo ed è ufficialmente nella sale a partire dal 4 aprile.

Co-diretto da Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi (premio come migliore attrice a Cannes 75 per “Holy Spider”, la prima professionista iraniana a ricevere tale riconoscenza), si tratta del primo film a quattro mani per un regista israeliano e una iraniana. Le riprese si sono svolte in segreto a Tbilisi, in Georgia, a due ore di distanza dai due Paesi nemici; tutti gli attori che hanno preso parte al film sono in esilio, come Zar Amir Ebrahimi, che, oltre a essere co-regista, è interprete di Maryam Ghanbari, allenatrice della giovane e testarda judoka. L’attrice iraniana vive in Francia dal 2008, dove si è rifugiata dopo aver rischiato la lapidazione e le frustate come punizione esemplare per aver preso parte a un sex tape amatoriale pubblicato sul web senza il suo consenso. Dopo quello scandalo, a Ebrahimi è stato impedito di apparire in tv e al cinema per dieci anni. Fuggita nel vecchio continente, l’attrice ha proseguito con la sua carriera sia sul grande schermo sia a teatro, ottenendo parti in “Taheregan’s Dream” e “Bride Price vs Democracy”. La sua co-partecipazione alla regia ha conferito un senso di autenticità e realtà alla storia di Leila e della sua allenatrice.

Se si pensa a quando si sono tenute le riprese in Georgia, nel 2022, la mente va allo scoppio delle proteste in Iran dopo la morte di Mahsa Amini, tre giorni dopo essere stata arrestata dalla polizia morale: un nodo ancora scoperto che chiede giustizia e verità.

“Tatami” si svolge interamente in una palestra in Tbilisi, in Georgia: la protagonista, interpretata dall’incredibile Arienne Mandi, è una giovane judoka iraniana in un incredibile stato di grazia e forma, pronta a dominare tutte le avversarie i campionati mondiali. Dopo la prima vittoria l’allenatrice, Maryam Ghanbari, riceve il primo avvertimento da una telefonata della federazione: siccome c’è la remota possibilità che Leila combatta contro l’atleta che rappresenta lo Stato Ebraico, è bene che dopo la conquista del primo incontro la sportiva finga un infortunio e si rifiuti. Si tratta di una prassi cui il regime di Teheran si è aggrappata spesso negli ultimi anni, l’utilizzare lo sport come specchio di un equilibrio geopolitico incalzante, che si traduce nell’evitare che i propri atleti si misurino con quelli dello Stato nemico.

Questo primo “cordiale” suggerimento – tanto assurdo e incredibile all’inizio, tanto spaventoso e minaccioso man mano che la storia va avanti – viene ignorato dall’atleta, testarda e piena di sé, concentrata sull’obiettivo da raggiungere. Non a caso pronuncia una frase che spiega meglio di qualsiasi altra cosa le sue intenzioni: “Il mio nome è Leila Hosseini e sono qui per vincere. Per la mia famiglia, per la mia squadra e per il mio Paese”.

Incontro dopo incontro la tensione e le minacce a Leila si fanno sempre più pressanti, grazie anche alla pervasiva presenza del regime iraniano, capace di arrivare ovunque e di colpire a fondo nei punti deboli della protagonista, perfino nell’intima tranquillità del suo spogliatoio: la scalata verso la medaglia d’oro si trasforma in una vera e propria resistenza psicologica e fisica dentro e fuori dal tatami dove si misura con le altre atlete. La decisione di non fingere un infortunio e di continuare il campionato si riversa anche sull’allenatrice Maryam Ghanbari, che si trova costretta a rivivere una situazione molto simile a quella vissuta personalmente qualche anno prima, quando era una giovane judoka. Il loro rapporto di fiducia e di sostegno rischia di incrinarsi a causa della testardaggine della ragazza, che arriva a presentarsi sul tappetino senza essere accompagnata da Ghanbari. Questa volta, però, sarà la sorellanza ad avere la meglio e a far tremare il regime.

L’impressione di soffocamento e di pericolo incessante è incrementata dalla scelta dei registi di girare in bianco e nero e dalla qualità recitativa di Arienne Mandi, capace di raggiungere picchi drammatici impensabili: bastano uno sguardo sofferente o un urlo di rabbia a scoperchiare la voglia di rivalsa, la paura per le sorti della propria famiglia in pericolo, la furia distruttiva che la agita al solo pensiero di perdere tutto ciò per cui ha sacrificato anni ed energie.

“Tatami” è un thriller sportivo sopraffino, in grado di restituire il clima opprimente e repressivo cui le donne e gli atleti iraniani sono sottoposti quotidianamente: una pellicola potente che, attraverso l’immagine dello sport, restituisce la lotta, la disperazione, la fatica e la paura di perdere tutto ciò che si ama solo per aver disobbedito a un ordine e aver inseguito le proprie ambizioni.

Sadaf Khadem

La storia di Leila non è tanto lontana dalla realtà: è infatti affine a Sadaf Khadem, prima pugile iraniana a partecipare, nel 2019, a partecipare a un incontro internazionale in Francia e a portare a casa la vittoria. Anche se a Teheran non è potuta più rientrare: oltre ad aver gareggiato senza indossare l’hijab, per prepararsi al torneo si è allenata di nascosto con l’ex campione franco-iraniano Mahyar Monshipour. Queste due azioni sono bastate perché la Repubblica Islamica emettesse per entrambi un mandato d’arresto.

E questa non è una storia isolata: c’è anche Kimia Alizadeh, campionessa di taekwondo che vinse la medaglia di bronzo ai giochi olimpici di Rio De Janeiro nel 2016. A soli 18 anni Alizadeh è stata la prima e unica atleta iraniana a conquistare una medaglia alle Olimpiadi; l’anno successivo è salita sul secondo gradino del podio ai campionati del mondo disputati a Muju, in Corea del Sud. Nel 2020 ha lasciato il Paese a causa delle oppressioni subìte, denunciando lo stato di paura e costrizione continua in cui sono costretti a vivere gli atleti che gareggiano per l’Iran. C’è poi quella della scalatrice Elnaz Rekabi, finita nell’occhio del ciclone nel 2022 per aver partecipato a una gara in Corea del Sud senza indossare l’hijab: dopo questo gesto sia lei sia la sua famiglia erano state oggetto di minacce, finché, rientrata in patria, non si è scusata pubblicamente per l’accaduto, dicendo che il velo le era scivolato durante la gara.

L’impedimento agli atleti dell’Iran di stringere anche solamente la mano agli avversari israeliani non è certo una invenzione dei registi di “Tatami”: la stessa situazione si è presentata al judoka Vahid Sarlak, che è stato costretto dal suo allenatore a rinunciare a un incontro durante i mondiali del 2005 che si disputavano in Egitto. Una inquietante e paradossale richiesta che ripeteva quanto verificatosi qualche anno prima, nel 1997, ai campionati mondiali juniores, che però aveva trovato l’allora diciassettenne impreparato. E chissà quante storie simili sono ancora sommerse e quanti atleti trarranno fiducia e coraggio da queste storie.

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